NEWS | MEDIORIENTE

Israele-Palestina, cosa c'è dietro i nuovi scontri

14 maggio 2021

Israele-Palestina, cosa c'è dietro i nuovi scontri

Condividi su:

Ed è nuovamente scontro e guerra. Questa potrebbe essere la prima reazione di fronte alla recente escalation di violenza nel contesto israelo-palestinese, ossia all’interno del conflitto irrisolto più lungo nella storia contemporanea nella regione mediorientale. Eppure, guardando attentamente alla cronaca degli eventi che hanno innescato i recenti scontri e che ne stanno accompagnando gli sviluppi non si può ignorare che non si è di fronte al semplice ciclico canovaccio. Qualcosa di più profondo e allarmante ha preso forma sotto i nostri occhi, chiamando radicalmente in causa tutti i fondamenti e le responsabilità su cui si è retto il precario equilibrio israelo-palestinese nel corso delle ultime due decadi tanto all’interno di Israele quanto lungo la direttrice dei rapporti tra Tel Aviv, Ramallah e Gaza. Un equilibrio chiamato comunemente status quo del conflitto, ma che per la verità nel corso delle ultime due decadi ha sempre meno colto la realtà di questa guerra, limitandosi per lo più ad accompagnare il suo graduale accantonamento sia dalle priorità dei principali attori internazionali e regionali sia dall’attenzione dell’opinione pubblica.

Non è un caso che, come è stato a lungo vaticinato e per lo più colpevolmente sottovalutato dai decisori politici e dalle diplomazie, il palcoscenico su cui la nuova realtà del conflitto israelo-palestinese si sta definitivamente rivelando sia Gerusalemme est. Questa città, santa per le tre religioni abramitiche e politicamente contesa tra israeliani e palestinesi, ha ricorrentemente giocato un ruolo centrale in tale questione. Si può dire che tutto sia iniziato qui nel 1929, quando ebrei e palestinesi si scontrarono nei pressi del cosiddetto Muro del Pianto, ossia il principale luogo santo per l’ebraismo su cui si regge lo Haram al-Sharif, conosciuta anche con il nome di Spianata delle Moschee che è il terzo luogo santo dell’islam e il fulcro dell’identità musulmana della città e della Palestina. Fu, poi, ancora nel 2000 che essa divenne simbolicamente il teatro da cui partì la Seconda intifada in seguito alla dimostrazione di forza di Sharon all’interno dello stesso Haram al-Sharif. Ed è ancora tra Gerusalemme est e questi luoghi nella città vecchia che oggi si consuma un’ulteriore tappa di questo conflitto sia materialmente che simbolicamente, riconsegnandoci però anche una realtà ben diversa dal passato. Il conflitto non è più vissuto da due ideali nazionalistici che si affrontano per rivendicare il controllo di una area dall’alto valore simbolico, religioso e culturale, come nel 1929. Non è neanche più il cuore dove si consumò il fallimento delle speranze di Oslo (1993-1995) e da cui si impose la logica organizzata dello scontro militare da parte palestinese per forzare Israele a riconoscere i suoi diritti di autodeterminazione. Oggi Gerusalemme est è il luogo in cui si manifesta e si irradia dentro e fuori Israele tutta la rabbia nei confronti della marginalizzazione e dell’alienazione che la popolazione palestinese sperimenta quotidianamente. Un sentimento che unisce gli abitanti di Gerusalemme est che vivono dal 1967 una condizione di precarietà, ancorati a visti di residenza sempre revocabili, e che sentono la pressione di essere estromessi da queste aree per far spazio a una città sempre più ebraica e israeliana, come ricordano ancora i recenti eventi di Sheikh Jarrah e di al-Aqsa all’inizio di questa escalation. Un impulso che coinvolge in maniera crescente la componente araba israeliana che si vede costantemente discriminata e privata di pieni diritti perché non ebraica a dispetto della propria cittadinanza. E, infine, una condizione che coinvolge tanto la Cisgiordania, divisa e frammentata dalle politiche israeliane e dalla condotta della sua tradizionale classe politica, e quella di Gaza, chiusa in una situazione d’assedio da Israele fin dal 2007 e ostaggio delle strategie di Hamas e delle altre fazioni militanti.
 

Podcast a cura del professor Riccardo Redaelli, docente di Geopolitica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore


Non è quindi un caso che l’attuale escalation di violenza stia sempre più abbracciando queste diverse dimensioni dell’esistenza palestinese e le sue molte espressioni di fragilità, segnando preoccupanti picchi tanto all’interno di Gaza, dopo la decisione di Hamas di ingaggiare militarmente Israele che da parte sua ha reagito con estrema severità, quanto nelle aree miste israeliane, come gli eventi delle ultime ore stanno mostrando. Queste ultime due dimensioni dell’attuale escalation raccontano però anche un altro aspetto dello scontro in corso. Da una parte, dopo la decisione di sospendere il processo elettorale in Palestina che avrebbe nelle prossime settimane con molta probabilità registrato la chiara vittoria di Hamas, questa organizzazione ha colto l’occasione da tempo ricercata per intitolarsi il “diritto” esclusivo a rappresentare la resistenza palestinese. L’ultimatum presentato a Israele rispetto agli eventi di Sheikh Jarrah e al-Aqsa ha permesso alle sue leadership, politiche e militari, di espandere la propria area di influenza, varcando i confini di Gaza per abbracciare Gerusalemme est ed idealmente tutta la sfera palestinese. Dall’altra, Netanyahu ha immediatamente rivendicato il diritto alla difesa con qualsiasi mezzo e strumento per presentarsi nuovamente come l’uomo forte e l’unico capace di proteggere il paese, egemonizzando la scena nonostante le forti divisioni politiche che stanno segnando la sfera israeliana negli ultimi anni. Non è quindi un caso che lo stesso Netanyahu stia spingendo per ridurre la situazione ad una nuova edizione dello scontro con Hamas a Gaza, come la recente mobilitazione delle forze di terra sembra evidenziare, cercando così di ignorare i profili politici degli eventi che scuotono Gerusalemme est e le diverse aree miste del paese.

Nel mezzo di questo rischioso gioco tattico di semplificazione e tentata egemonizzazione delle logiche dello scontro è difficile prevedere quale sarà l’andamento di questa escalation. Le violenze di Gerusalemme est e gli scontri nei quartieri misti israeliani dimostrano però che non si è di fronte a una semplice riedizione delle guerre di Gaza. Gli sviluppi futuri, infatti, dipenderanno proprio da come evolverà la situazione in questi due contesti. È, quindi, evidente che qualsiasi discorso credibile rispetto alla riduzione della violenza e alla pacificazione della situazione dovrà tener conto del nuovo scenario del conflitto. Gli eventi in corso dimostrano che non sarà più possibile ignorare questa realtà, a meno di non voler promuovere politiche di securitizzazione e segregazione ancor più dure. Appare quindi sempre più urgente la necessità di focalizzare l’attenzione innanzitutto sulla sfera dei diritti, della giustizia e delle garanzie ancor prima di poter impostare, se realmente vi sarà l’interesse, un percorso volto a riprendere il dialogo sulla soluzione di questo lungo conflitto.

Palestina: non ci sarà mai pace senza giustizia

di  Vittorio Emanuele Parsi
Direttore Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI)

(...)

Netanyahu ha scelto questa via anche per oscurare e condizionare i processi e le inchieste per corruzione – cioè per aver rubato al suo stesso popolo – che lo riguardano, per mettere in difficoltà l’amministrazione Biden che (pur considerando Israele il suo alleato principale nella regione) non ha nessuna intenzione di avallare la deriva sempre più apertamente razzista e violenta di questo governo. Una “bella guerra” a Gaza, un facile “trionfo” corredato da una sfilza di cadaveri arabi da esibire con un gusto macabro sul quale neppure Vespasiano o Tito avrebbero potuto eccepire, e la solita rivendicazione del “diritto alla sicurezza di Israele” (la sola potenza nucleare del Medio Oriente), come se qualcuno minacciasse davvero più di estinzione lo Stato di Israele (a parte il regime di Tehran, che mi pare abbia ben altre preoccupazioni).

La verità è che le politiche di questa destra israeliana – sempre più inquietante e sempre più pericolosa – rappresentano la prima minaccia alla pace tanto per gli ebrei, quanto per gli arabi, quanto per l’intera regione del Medio Oriente. E’ singolare che l’idea di pace che ha in testa questa destra israeliana sia la stessa che i romani applicarono alla Palestina ai tempi di Tito e Vespasiano – la stessa peraltro che Roma imponeva a qualunque turbolenta provincia dalla Britannia all’Armenia – e che faceva dire “fanno il deserto e lo chiamano pace”, nelle parole da Tacito attribuite a un generale britanno.
 

Leggi l'articolo completo su Radio Popolare

 

Un articolo di

Paolo Maggiolini

Paolo Maggiolini

Docente Facoltà Scienze politiche e sociali - Università Cattolica

Condividi su:

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti