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L’Afghanistan e la questione centrale della libertà di coscienza

09 settembre 2021

L’Afghanistan e la questione centrale della libertà di coscienza

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Mentre i talebani annunciano la formazione di un governo ad interim, due preoccupazioni si rincorrono nelle dichiarazioni della comunità internazionale: riguardano il livello di “moderazione” e di “inclusività” del nuovo esecutivo. In realtà, queste espressioni tradiscono la difficoltà a pensare il fondamentalismo islamico secondo le sue stesse categorie. Duro da accettare, ma non tutti i fenomeni sociali e politici si lasciano ricondurre alla metafora del centro e degli estremi, nata originariamente per descrivere gli emicicli parlamentari. Né la vaga categoria di inclusività è di per sé garanzia di successo per un esperimento politico.

Proviamo allora a riformulare le stesse questioni in termini più vicini se non alla realtà afghana (che ben pochi possono dire di conoscere di prima mano) quanto meno alle sue categorie politico-religiose. La prima, la più importante: che regime politico hanno istituito i talebani? La risposta la offre già l’articolo 1 della bozza di Costituzione preparata nel 1996: «L’Afghanistan è un emirato islamico».

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In realtà, al centro del pensiero politico dell’Islam classico non c’è l’emiro, ma il califfo. È a questa figura unitaria che andrebbe idealmente affidata la guida della comunità dei credenti. Ed è intorno ad essa che si sono catalizzate le prime divisioni, tra cui quella tra sunniti e sciiti. Eppure non di rado accade che la teoria vada da una parte e la storia dall’altra. Così, mentre gli ulema discutevano di modalità di elezione, qualifiche e compiti del califfo, il suo potere andava sempre più riducendosi: una a una tutte le province dell’impero islamico si resero indipendenti, pur mantenendo una dipendenza formale dal califfo di Baghdad. Erano nati gli emirati, gli embrioni dei futuri Stati musulmani: province affidate a un capo militare, l’emiro appunto, alcuni dei quali col tempo avrebbero assunto il titolo di sultano. Al califfo restava solo Baghdad e poco più al punto che il viaggiatore ebreo Beniamino di Tudela, provenendo dalla lontana Spagna, lo paragonò al Papa (!). L’invasione mongola dell’Iraq nel 1258 assestò il colpo definitivo e da allora il mondo islamico vive senza un califfato universale, nonostante vari tentativi di riattivare l’istituzione sotto i mamelucchi egiziani e i turchi ottomani.

Mentre diverse istituzioni islamiche, come al-Azhar, hanno affermato in tempi recenti, anche in risposta al trauma dell’Is, che il califfato rappresenta un’istituzione politica del passato, sostituita oggi dallo Stato nazione e dal concetto di cittadinanza, i gruppi jihadisti continuano a essere affascinati dalla possibilità di riesumarlo. E i talebani? Sulla carta, il loro movimento ha un orizzonte afghano e anzi offre un perfetto esempio di quella commistione di “spirito di corpo” e “tinta religiosa” che il grande storico maghrebino Ibn Khaldun aveva identificato, nel lontano 1400, come motore del cambiamento nelle società islamiche.

Tuttavia l’emirato, nella giurisprudenza islamica a cui i talebani si rifanno, è afflitto da una pericolosa malattia, o più precisamente da un deficit cronico di legittimità religiosa. In fin dei conti, come si diventa emiri? Per gli ulema il semplice fatto di impadronirsi del potere sarebbe prova sufficiente della sua legittimità perché — ragionano — se Dio non lo avesse voluto, non lo avrebbe permesso. Insomma, siamo di fronte a una logica del puro fatto compiuto, una “ideologia del sultanato” secondo l’espressione proposta dal filosofo marocchino al-Jabri nella sua Critica della ragione politica araba. Da qui un’instabilità strutturale delle dinastie — quattro generazioni al massimo nella visione di Ibn Khaldun — e una storia punteggiata di rivolte e colpi di Stato. Per ovviare a questo stato di cose, l’emirato classico è perennemente di fronte a un bivio: o evolve verso le forme di uno Stato dinastico a dimensione nazionale, come storicamente è avvenuto in Arabia Saudita, o tenta l’upgrade a califfato, ovvero, per citare ancora al-Jabri, il passaggio dall’ideologia del sultanato alla mitologia dell’imamato, magari nella forma di un movimento messianico.

Ed è esattamente questa l’alternativa che oggi si pone ai talebani. Da un lato, la sconfitta del 2001 e la ventennale traversata nel deserto ha insegnato loro quanto rischioso sia attirarsi l’ostilità globale. Dall’altro però il titolo stesso del loro leader religioso, “comandante dei credenti”, è quello di un potenziale califfo e le prevedibili difficoltà che incontreranno quando dai proclami media-friendly si tratterà di passare alle decisioni in fatto di amministrazione, economia, gestione della complessità etnica e religiosa, potrebbero rendere necessaria una virata massimalista. Questa tensione del resto si era già espressa nella Costituzione del primo emirato, che rimase allo stato di bozza per l’opposizione dell’ala oltranzista, per la quale l’unica Costituzione era la sharī‘a.


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Un articolo di

Martino Diez

Martino Diez

Docente di Lingua e cultura araba - Università Cattolica

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