NEWS | Attualità

L’assedio di Leningrado, l’urbicidio di Mariupol

06 maggio 2022

L’assedio di Leningrado, l’urbicidio di Mariupol

Condividi su:

Le città sono vive. Era il titolo, indovinato, di un piccolo, grande libro del sindaco-santo di Firenze. Giorgio La Pira aveva in mente non solo agglomerati urbani, ma soggetti viventi dotati di un’anima propria. Non è un caso che nel corso di questa nuova guerra nel cuore dell’Europa, come in molti altri conflitti, le città stesse siano diventate un nemico da annientare. Così per Leningrado, assediata nella Seconda guerra mondiale, Sarajevo, nella guerra dei Balcani, e Mariupol, città-martire dell’invasione russa in Ucraina. C’è chi è arrivato a coniare il termine di “urbicidio”, per denunciare l’uccisione, simbolica e concreta, dell’anima delle città.

Deve essere stato così nei 900 giorni d’assedio, il più lungo della storia, dell’antica San Pietroburgo, quando, tra il 1941 e il 1944, i nazisti accerchiarono la sovietica Leningrado. Francesca Gori, di Memorial Italia, ha tradotto per Guerini e Associati Quasi tre anni. Leningrado. Cronaca di una città sotto assedio di Vera Inber, che racconta dall’interno la tragedia della città, poi liberata dall’Armata Rossa. Un documento storico, perché la scrittrice decide di attenersi al decalogo imposto dal regime sovietico per raccontare l’assedio: in un certo senso si “autocensura”, lo taglia tra il 1943 e il 1945, depurandolo di tutti i nomi, compreso quello di Boris Pasternak, come testimonia l’appendice del libro, presentato lo scorso 4 maggio per iniziativa del dipartimento di Scienze linguistiche/corso letteratura russa della professoressa Maurizia Calusio, con la partecipazione di Marta Dell’Asta della Fondazione Russia Cristiana. «Un’opera letteraria ma anche uno strumento della propaganda staliniana, che la porterà a vincere nel 1946 il premio Stalin». Il suo libro diventerà «il canone di come raccontare l’assedio, che viene elevato a mito», anche se per poco, onde evitare di oscurare la primazia di Mosca.

Nel racconto della Inber emergono, infatti, alcuni motivi ricorrenti: la fame, il nemico, l’esaltazione eroica del popolo russo, il desiderio di vendetta, l’auto-attribuzione del compito di liberare il pianeta dalla peste (“Questo è l’umanesimo e noi siamo gli umanisti”), la negazione di ogni forma di perdono. «Sono slogan molto presenti nelle manifestazioni ufficiali degli ultimi anni, soprattutto quelle del 9 maggio, che ricordano la vittoria nella Grande guerra patriottica, come chiamano ancor oggi la Seconda guerra mondiale. L’analogia con i principi proclamati dal regime attuale è impressionante», annota Francesca Gori.

La Russia di Putin lavora da anni alla manipolazione della memoria, a una ricostruzione pro domo sua della storia: «Messa tra parentesi la vicenda del socialismo reale, la nuova narrazione cerca di saldare l’epoca zarista (non a caso sono state esumate dalle fosse comuni le salme degli zar per riporle in un grande mausoleo a San Pietroburgo) con la nuova Russia, imperiale oggi come allora, nel nome di un nuovo patriottismo, alimentato, come sempre, dalla sindrome dell’accerchiamento, dalla logica dell’assedio, dalla costruzione del nemico».

Tradendo, così, l’insofferenza putiniana per la Nato alle porte. «È semplicemente la retorica funzionale del nemico che assedia, che ormai ha fatto breccia tra i russi. Le persone vedono in televisione una realtà parallela, non si parla di guerra, fanno vedere solo le gesta del battaglione Azov per giustificare quella che chiamano “denazificazione” dell’Ucraina. Nelle campagne chi non ha internet vede solo quello che decidono di fargli vedere. Non è rimasto neanche un giornale indipendente attivo. Ho visto un talk show italiano ospitare una “giornalista” russa: scrive, in realtà, per il giornale del ministero della Difesa. Non si può accettare».

Non è che la retorica dell’assedio rischi, specularmente, di diventare funzionale a giustificare quella di Putin come una reazione? «Semplicemente non abbiamo voluto vedere la guerra nel Donbass: ci sono stati 14mila morti (4mila dei quali civili), gli accordi di Minsk sono stati disattesi e l’Europa se ne è disinteressata. Ma questo non giustifica nessuna invasione».

Tutto questo può aiutare a capire il consenso ancora diffuso per Putin. «Come rivela Lev Gudkov, del Centro Levada finito tra i nemici del regime, prima della guerra si parlava dell’80% di russi dalla sua parte anche se, realisticamente, siamo intorno al 65%. Molti non rispondono ai sondaggi perché pensano non serva a niente. Dopo l’avvio della “operazione militare speciale” la gente è impaurita: a parlare di “guerra” si rischiano 15 anni di carcere. E le persone temono di parlare al telefono, in un Paese con una lunga storia di spionaggio e delazione, amplificata in pochi mesi. Il sito di Aleksej Navalny, che aveva milioni di visualizzazioni, ha subito un tracollo, perché la gente teme di essere identificata. Chi dissente non ha paura solo per se stesso ma soprattutto per i propri familiari».

Per arrivare a questo punto, «i manuali di storia sono stati riscritti, è stato imposto alle scuole un nuovo abbecedario, un testo unico per la pubblica istruzione, che introduce un lessico patriottico e ridefinisce i rapporti con gli Stati vicini». Un processo di epurazione della memoria contrario a quello di purificazione che l’associazione Memorial aveva avviato alla fine degli anni ’80, in piena Perestrojka, per opera di alcuni intellettuali che, capeggiati dal Nobel per la pace Andrej Sacharov, hanno raccolto progressivamente una banca dati di tre milioni di nomi di vittime della stagione delle repressioni in Urss. «Uno sforzo orientato dall’accettazione di qualsiasi memoria del passato sovietico, quella delle vittime e quella dei carnefici, quella degli intellettuali e quella del popolo, necessaria premessa per la comprensione e il rispetto dei diritti umani». Non a caso questo impegno a leggere la storia in maniera pluralistica è andato a cozzare contro la visione totalitaria di Putin che, proprio alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, ha fatto chiudere i battenti a Memorial, con tanto di sentenza della Corte costituzionale.

Che cosa possiamo immaginare per il prossimo futuro? «Che la Russia, anche in seguito a una profonda trasformazione demografica, andrà verso l’Asia. Eppure, questo grande Paese non è asiatico, è europeo e la sua storia lo testimonia. Ma ora, per colpa di Putin, non ho dubbi, va in braccio alla Cina, si rinchiude in Asia e si allontana definitivamente dal Vecchio continente». E, mentre torna a esaltare l’eroismo degli assediati di Leningrado, infligge il martirio a Mariupol e alle altre città dell’Ucraina.

Un articolo di

Paolo Ferrari

Condividi su:

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti