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L’intelligenza artificiale nelle aziende, ecco quando conviene usarla

23 maggio 2024

L’intelligenza artificiale nelle aziende, ecco quando conviene usarla

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Nel Fedro di Platone Theuth, una divinità egizia, presenta al re dell’Egitto la sua ultima invenzione, la scrittura, consigliandogli di diffonderla tra il suo popolo perché «renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare». Il re gli risponde che la scoperta della scrittura avrà un effetto funesto, provocherà «la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno» perché, scrive Platone, fidandosi della scrittura le persone «si abitueranno a ricordare» solamente attraverso essa. Marco Passarotti, direttore del Centro interdisciplinare di ricerche per la computerizzazione dei segni dell’espressione (Circse) e coordinatore del corso di laurea magistrale in Linguistic computing, sceglie il Mito di Theuth per spiegare ai tantissimi studenti che hanno partecipato all’evento “Come analizzare il linguaggio naturale con l'AI può migliorare le decisioni in azienda” che, in fondo, «il timore dell’automazione c’è sempre stato».

«Quando c’è una curva, o si va dritto o si curva» spiega Passarotti, durante il secondo appuntamento del ciclo “Humane intelligence. Trasformare l’Intelligenza Artificiale in una tecnologia positiva”. L’incontro è stato promosso da Humane Technology Lab (HTLab) dell’Università Cattolica, il Laboratorio diretto da Giuseppe Riva che esplora il rapporto tra esperienza umana e tecnologia, ed è stato moderato da Manuela Perrone, giornalista de Il Sole24Ore (leggi l’articolo su ilsole24ore.com). «L’intelligenza artificiale ha imparato ciò che sa sulla base dei dati con cui è stata addestrata» prosegue Passarotti. E si chiede: «Se l’intelligenza artificiale è basata su un’esperienza quantitativamente irraggiungibile da un essere umano, e se il tratto distintivo di un buon capo d’azienda è proprio l’esperienza, qual è il ruolo del manager aziendale? E qual è il fattore umano discriminante rispetto all’intelligenza artificiale?».

La risposta, secondo Passarotti, sta nel fatto che l’intelligenza artificiale è dotata di «conoscenza», intesa come l’insieme delle «correlazioni significative tra le informazioni». Questa è «la grande novità» della nuova tecnologia che, a differenza delle precedenti, non si limita al possesso di «informazioni» ma va oltre. È la «saggezza», al contrario, a rimanere caratteristica peculiare dell’uomo. Che è in grado di «comprendere la conoscenza», di «saperla applicare», di «saper fare la cosa giusta al momento giusto». Poi c’è la «creatività»: un buon manager aziendale è «colui che sa prendere decisioni creative» spiega Passarotti. «Anche l’intelligenza artificiale in parte è creativa, perché tra i dati vede correlazioni che noi non vediamo». Eppure, secondo il direttore del Circse, ha ragione la linguista americana Emily Bender quando definisce ChatGPT «un pappagallo stocastico, una macchina che ripete analogicamente quello che ha imparato dai dati». Perché «le correlazioni che la macchina vede le trova nei dati, non sa costruire correlazioni nuove e creative».

Un articolo di

Francesco Berlucchi

Francesco Berlucchi

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I dati, del resto, sono il nuovo petrolio. Lo ricorda con la consueta concretezza Giuseppe Riva, direttore di HTLab, citando la ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) secondo la quale «basta conoscere cento like, inseriti su un social network da una persona, per avere una capacità di previsione della sua psicologia superiore a quella che potrebbe avere un partner». Riaffiora il tema approfondito nell’ambito de “Le campagne elettorali nell'era dell'Intelligenza artificiale”, durante il primo evento di questo ciclo di incontri. Eppure, prosegue Riva, «se l’intelligenza artificiale possiede la conoscenza, la saggezza sta nella comprensione. La conoscenza è la capacità di rispondere a tutte le domande. Mentre la comprensione è riposta nella capacità di fare le domande giuste, e di trovare le risposte a queste domande. Questo è ciò che rende l’uomo saggio, ed è una capacità ancora esclusivamente dell’uomo».

«Tutti questi dati, di cui spesso parliamo, finora sono stati utilizzati dall’intelligenza artificiale per fare previsioni» spiega Massimo Chiriatti, Chief technology and innovation officer per l’Infrastructure Solutions Group di Lenovo in Italia e docente di Artificial Intelligence and Natural Language Processing for Decision Making nel corso di laurea in Linguistic Computing. «Oggi la macchina genera contenuti testuali, video, audio, codici informatici. Immaginate una penna che non è passiva ma continua autonomamente a generare contenuti. Lo fa sulla base di quello che abbiamo fatto nel passato». Per questo motivo la condizione ideale di utilizzo, nei contesti lavorativi, si presenta «quando un’azienda ha tantissimi dati e cerca di usarli al meglio». La macchina «non decide, non riesce a legare bene causa ed effetto», e soprattutto «non ha un’intenzione». Quindi non c’è da avere paura.


«I lavori che stanno scomparendo sono quelli ripetitivi» prosegue Chiriatti. Ma l’esempio prototipico, forse, sono le traduzioni. «Prima per tradurre si scrivevano programmi con tante regole, nei quali però venivano introdotte eccezioni su eccezioni. A un certo punto è cambiato il paradigma: alle macchine sono state dati tanti testi, non regole. In questo modo, basato sulla connessione statistica, le traduzioni sono molto migliorate rispetto a una decina di anni fa». E quella stessa tecnologia non ha soppiantato l’essere umano, lo ha affiancato. «Oggi le traduttrici e i traduttori che usano l’AI possono migliorare il loro reddito, perché producono più velocemente e con più qualità». In sintesi, sostiene Chiriatti, «la tecnologia ci aiuta a studiare di più, a migliorarci, delegando alle macchine i lavori più ripetitivi».

«Abbiamo paura che l’intelligenza artificiale ci sostituisca, perché tendiamo a umanizzarla» conclude Passarotti. «Per la prima volta nella storia c’è una dissociazione tra il linguaggio e il pensiero. Siamo abituati al fatto che chi interagisce con noi sia un essere umano. La sfida, oggi, è smettere di umanizzare l’intelligenza artificiale, e diventare noi più umani, più saggi e più creativi. Per non subire la tecnologia e, al contrario, usarla al meglio anche in ambito aziendale». Il rischio sarà l’allargamento del «gap tra chi l’intelligenza artificiale non la conosce, e la subirà, e chi la saprà sfruttare». Perché ha maturato la saggezza, «la comprensione della conoscenza».

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