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La Chiesa “disinstallata” che nutre la speranza

22 febbraio 2022

La Chiesa “disinstallata” che nutre la speranza

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Una Chiesa in ascolto, inquieta, «disinstallata». Che ha il suo vero motore nella speranza, territorio del possibile e della grazia. È la «password» per tenerla giovane e aperta al futuro in un tempo di crisi e grandi incertezze. A indicarla padre Antonio Spadaro s.j., direttore della rivista “La Civiltà Cattolica”, nel suo intervento di lunedì 21 febbraio dedicato proprio alla “vitalità della Chiesa in un tempo di crisi”, nell’ambito del ciclo di conferenze “Un secolo di futuro. L’università tra le generazioni”, l’iniziativa promossa dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione del Centenario. D’altra parte, ha riscontrato il rettore Franco Anelli, aprendo la lezione «a dispetto di ogni apparenza crediamo che la Chiesa abbia molto a che fare con la parola futuro, per questo abbiamo affidato ad alcuni suoi esponenti tre incontri di questo ciclo».

Una lecture che si è mossa a ritmo di jam session. E questo, ha precisato padre Spadaro, per evitare, nel trattare questo tema, «il rischio elevatissimo di andare a “sbattere”» contro una «visione meramente sociologica» o una «analisi astrattamente ideo-teologica». Per questo «posso procedere solo in forma di ampia digressione, di un accostamento di pensieri come i suoni di un concerto jazz».

Il futuro della Chiesa, dunque. Dove trovare una risposta alla domanda sul senso della sua giovinezza? Padre Spadaro, affidandosi alla riflessione che lo scrittore svedese Stig Dagerman fa nel libro “Il nostro bisogno di consolazione”, la intravvede nella speranza, la sola in grado di «tenere viva la convinzione che l’esperienza della grazia e della meraviglia sia possibile come storia, come futuro». Ecco perché il tempo della Chiesa è l’«avvenire». Infatti, «l’apertura dello Spirito vive della pensabilità del futuro. Se non si è capaci di pensare un dopo, un domani, qualcosa che deve ancora accadere, allora è impossibile parlare di generazione del futuro», ha aggiunto il direttore de “La Civiltà Cattolica”. «E tuttavia, per generarlo - e dunque sperare - occorre immaginare, riflettere su ciò che non vediamo con i nostri occhi né tocchiamo con le nostre mani».

Ora, un futuro basato sulla deduzione o affidato alla «statistica della probabilità» è sostanzialmente «un pensiero calcolante capace di fare previsioni più o meno attendibili» che «non ha nulla a che vedere con ciò che i cristiani chiamano speranza». Di qui la necessità di un’apertura all’incertezza. Poiché, secondo padre Spadaro, si può generare futuro solo se si vive nella «possibilità», quella del verso di Emily Dickinson “I dwell in possibility”, «non legata ai limiti di ciò che è statisticamente probabile». Insomma, la speranza, «territorio del possibile» e «della grazia», è «l’unica possibilità di «”giovinezza” della Chiesa. Essa implica l’incertezza, l’indeterminazione. Non l’ordine, la codificazione, il solido, ma l’informe, il diveniente, ciò che non è ancora solidificato e definito».

In definitiva, «il motore della speranza è il timore di non ricevere ciò che si attende, dunque il dubbio, l’incertezza, la precarietà inquieta». È la stessa «sana inquietudine» di cui parla spesso Papa Francesco. Perché «se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico – non quello scettico –, la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è esperienza di Chiesa», ha avvertito padre Spadaro.

È quindi questa forma di inquietudine, della «indeterminatezza», della «tensione», dell’«ascolto» - e che Papa Francesco descrive anche con il verbo spagnolo “desinstalarse” - a generare il futuro. «La postura dell’anima è quella del “disinstallarsi” dalle coordinate “coloniali” dello spazio e del potere, che rendono il cristianesimo una cosa, una merce da vendere». Lo spazio della Chiesa, invece, è nel seme. «Quello che spinge l’interesse di Pietro, del Papa, per le realtà meno stabilite, le realtà dello “zero virgola”. L’ascolto di queste realtà periferiche o marginali produce nella Chiesa un clima sonoro che - se vissuto nella comunione - è quello di una jam session, dove il direttore d’orchestra non può che essere lo Spirito Santo».

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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Eppure, il futuro «non è mai astratto»: la sua «pensabilità» è legata al passato. Come recuperare allora il tempo perduto? E in che modo può acquisire una nuova dimensione di senso? Per padre Spadaro la chiave di lettura sta nel far sì che il passato rimanga aperto. «La giovinezza consiste nel non sigillare il passato, nel lasciarlo aperto alle interpretazioni. Perché la memoria dell’esperienza vissuta nel passato acquisisce nel presente un senso imprevisto ma attuale ed efficace nella direzione di una attesa di futuro. La religione è anche un re-legere, una rilettura, un ripensamento del vissuto». Infatti, ha spiegato il padre gesuita, «gli eventi più contraddittori o negativi del passato hanno una loro comprensibilità in una parola chiave che è conosciuta solamente da Dio. Il credente sa che la sua vita è protetta da questa password. Sa, inoltre, che lo attende una “decifrazione” del suo destino. La stessa giovinezza della Chiesa è protetta da questa password, è criptata in Dio, preservata da operazioni pelagiane».

Suspense, inquietudine, ritmo delle diversità armoniche, ma anche riconciliazione piena con tutte le dinamiche dell’umano, incluse le tentazioni centrifughe: sono questi in sintesi gli elementi in grado di garantire una giovinezza della Chiesa, non una «societas perfecta», ma «popolo di Dio in cammino», che predica un Vangelo capace di «convertire il passato» e di «rileggere il vissuto del mondo alla luce della Provvidenza e della Grazia, senza cadere nella tentazione della desolazione e della solitudine».
 
Tuttavia, una Chiesa proiettata verso il futuro deve fare i conti con altre problematiche: il linguaggio da adottare per meglio comunicare il messaggio del Vangelo, la curva demografica, il ruolo delle donne. A sottoporle all’attenzione di padre Spadaro, al termine della sua lecture, è stata Anna Maria Fellegara, preside della facoltà di Economia e Giurisprudenza, campus di Piacenza. «Viviamo la precarietà e il nostro essere Chiesa non ci rende certi che l’azione che svolgiamo abbia successo», ha affermato padre Spadaro. Ma «se la Chiesa si pone all’ascolto della realtà diventa capace di capire come il Signore si sta muovendo nel mondo. Il discernimento consiste proprio in questo: cercare Dio in tutte le cose. Una ricerca che, portando a instaurare un rapporto dinamico con la realtà, genera un linguaggio comprensibile, reale, non stantio. E forse la poesia può essere di grande aiuto». Così, anche quando si parla di ruolo delle donne. «Bisogna abbandonare l’idea, sbagliata, della complementarità» e «abbracciare quella della reciprocità. Nella Chiesa, dove sempre più donne stanno entrando con ruoli di responsabilità, ci stiamo muovendo in questa direzione». Infine, in una società pluralista e laica come la nostra quale spazio occupano gli atenei cattolici? «La tensione di fondo è far sì che il Vangelo diventi lievito per chiunque altro e che non tenda a trasformare chiunque altro in lievito». Pertanto, «il compito di una università cattolica è evangelico», cioè «essere il sale della terra e della cultura contemporanea, accogliendo in sé, aprendo il proprio messaggio a chiunque».

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