Una Chiesa in ascolto, inquieta, «disinstallata». Che ha il suo vero motore nella speranza, territorio del possibile e della grazia. È la «password» per tenerla giovane e aperta al futuro in un tempo di crisi e grandi incertezze. A indicarla padre Antonio Spadaro s.j., direttore della rivista “La Civiltà Cattolica”, nel suo intervento di lunedì 21 febbraio dedicato proprio alla “vitalità della Chiesa in un tempo di crisi”, nell’ambito del ciclo di conferenze “Un secolo di futuro. L’università tra le generazioni”, l’iniziativa promossa dall’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione del Centenario. D’altra parte, ha riscontrato il rettore Franco Anelli, aprendo la lezione «a dispetto di ogni apparenza crediamo che la Chiesa abbia molto a che fare con la parola futuro, per questo abbiamo affidato ad alcuni suoi esponenti tre incontri di questo ciclo».
Una lecture che si è mossa a ritmo di jam session. E questo, ha precisato padre Spadaro, per evitare, nel trattare questo tema, «il rischio elevatissimo di andare a “sbattere”» contro una «visione meramente sociologica» o una «analisi astrattamente ideo-teologica». Per questo «posso procedere solo in forma di ampia digressione, di un accostamento di pensieri come i suoni di un concerto jazz».
Il futuro della Chiesa, dunque. Dove trovare una risposta alla domanda sul senso della sua giovinezza? Padre Spadaro, affidandosi alla riflessione che lo scrittore svedese Stig Dagerman fa nel libro “Il nostro bisogno di consolazione”, la intravvede nella speranza, la sola in grado di «tenere viva la convinzione che l’esperienza della grazia e della meraviglia sia possibile come storia, come futuro». Ecco perché il tempo della Chiesa è l’«avvenire». Infatti, «l’apertura dello Spirito vive della pensabilità del futuro. Se non si è capaci di pensare un dopo, un domani, qualcosa che deve ancora accadere, allora è impossibile parlare di generazione del futuro», ha aggiunto il direttore de “La Civiltà Cattolica”. «E tuttavia, per generarlo - e dunque sperare - occorre immaginare, riflettere su ciò che non vediamo con i nostri occhi né tocchiamo con le nostre mani».
Ora, un futuro basato sulla deduzione o affidato alla «statistica della probabilità» è sostanzialmente «un pensiero calcolante capace di fare previsioni più o meno attendibili» che «non ha nulla a che vedere con ciò che i cristiani chiamano speranza». Di qui la necessità di un’apertura all’incertezza. Poiché, secondo padre Spadaro, si può generare futuro solo se si vive nella «possibilità», quella del verso di Emily Dickinson “I dwell in possibility”, «non legata ai limiti di ciò che è statisticamente probabile». Insomma, la speranza, «territorio del possibile» e «della grazia», è «l’unica possibilità di «”giovinezza” della Chiesa. Essa implica l’incertezza, l’indeterminazione. Non l’ordine, la codificazione, il solido, ma l’informe, il diveniente, ciò che non è ancora solidificato e definito».
In definitiva, «il motore della speranza è il timore di non ricevere ciò che si attende, dunque il dubbio, l’incertezza, la precarietà inquieta». È la stessa «sana inquietudine» di cui parla spesso Papa Francesco. Perché «se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico – non quello scettico –, la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è esperienza di Chiesa», ha avvertito padre Spadaro.
È quindi questa forma di inquietudine, della «indeterminatezza», della «tensione», dell’«ascolto» - e che Papa Francesco descrive anche con il verbo spagnolo “desinstalarse” - a generare il futuro. «La postura dell’anima è quella del “disinstallarsi” dalle coordinate “coloniali” dello spazio e del potere, che rendono il cristianesimo una cosa, una merce da vendere». Lo spazio della Chiesa, invece, è nel seme. «Quello che spinge l’interesse di Pietro, del Papa, per le realtà meno stabilite, le realtà dello “zero virgola”. L’ascolto di queste realtà periferiche o marginali produce nella Chiesa un clima sonoro che - se vissuto nella comunione - è quello di una jam session, dove il direttore d’orchestra non può che essere lo Spirito Santo».