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La vita di Armida Barelli attraverso alcuni episodi significativi

20 febbraio 2021

La vita di Armida Barelli attraverso alcuni episodi significativi

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“Zitella mai!”

A 18 anni disse: «Io sarò suor Elisabetta missionaria in Cina o madre di dodici figli tutti buoni, e la prima bambina si chiamerà Elisabetta. Ricordate tutte che Ida Barelli sarà suora o mamma, ma vecchia zitella mai e poi mai!».

La provvidenza, attraverso le strade della casualità, le fece trovare proprio la biografia di una santa francescana che colpì tanto la fantasia dell’adolescente perché avvincente come un’edificante fiaba. Infatti Elisabetta, figlia del re d’Ungheria, nacque a Bratislava nel 1207. All’età di quattro anni fu allontanata dalla mamma per essere inviata alla corte del promesso sposo in Turingia ed essere educata secondo gli usi di quello stato. A quattordici anni si sposò con Ludovico IV ed ebbero tre figli. La loro fu una unione felice in quanto condividevano anche gli ideali spirituali. Inoltre Elisabetta era benvoluta da tutti perchè dedita all’aiuto dei poveri e delle persone in difficoltà. A diciannove anni, rimasta vedova, fu cacciata dalla reggia (proprio per la sua prodigalità verso i poveri) e si adattò a vivere in una stalla con gli animali. Ma non si inquietò mai, non meditò vendetta e quando ebbe modo di insediarsi regina, preferì cedere il trono regale al figlio. Morì a ventiquattro anni come terziaria francescana in umiltà e povertà.

Fu così che Armida scelse come sua patrona Santa Elisabetta e il legame con tale santa diventerà ancora più saldo nelle ulteriori scelte della sua vita adulta, condotta dalla paziente mano di Dio e nella disposizione a fare la sua volontà.

Da adolescente diceva: «Che meraviglia lo scintillio del sole sulle acque marine! Mi fa l’impressione di miriadi di diamanti che il Signore dona anche ai più poveri».

”Impossibile? Allora si farà!”

Dopo la morte del padre nel 1906 Armida trascorreva le sue giornate occupandosi dell’azienda familiare di stampe antiche e dedicando il tempo libero ai familiari e alle amiche, in particolare ai nipotini per cui stravedeva. Ma qualcosa mancava all’operosità serena della sua giornata.

Così, dimostrando grande determinazione e capacità, iniziò a fare esperienza di amministrazione pubblica e di richiesta di offerte agli esponenti dei ceti agiati. Un’esperienza estranea alle sue abitudini ma che risulterà utile negli sviluppi della sua vita, allora inimmaginabili. E soprattutto la doterà di forte determinazione nell’affrontare le difficoltà. Il suo motto divenne: ”Impossibile? Allora si farà!”.

L’incontro con padre Gemelli rafforzò Armida nella spiritualità francescana tanto che il 19 novembre entrò nel Terz’Ordine francescano con il nome di Elisabetta in omaggio a Santa Elisabetta d’Ungheria sua protettrice, e cominciò anche a lavorare per padre Gemelli traducendo dal tedesco e dal francese articoli per la “Rivista di filosofia neo-scolastica”, la rivista fondata da Gemelli insieme agli amici Olgiati e Necchi.

Animata dalla spiritualità francescana sarà la “cucitrice” delle opere di padre Gemelli

Sotto la guida di padre Mazzotti, che era anche il direttore spirituale di padre Gemelli, le capacità organizzative di Armida orientate a opere di carità ricevevano un’intonazione francescana. Il frate cioè riempì di spiritualità le azioni di entrambi e restò un insostituibile sostegno nel momento della prova e del dolore.

Soffriva soprattutto per la madre, abituata all’agiatezza, che viveva la vicenda del tracollo economico con nervosismo, e di conseguenza esasperava chi le era accanto. Armida giunse persino a pensare alla morte durante quella tempesta familiare ed economica.

L’unico che se ne compiaceva era padre Mazzotti e glielo faceva notare così: “Mi rallegro che comincia a conoscere personalmente Madonna Povertà. La conoscenza sui libri non vale un fico secco”.

Un’occasione di distrazione in quel triste periodo fu offerta ad Armida dalla creazione della rivista “Vita e pensiero” a opera dei suoi tre amici. Sembrava un’operazione da stolti calcolando che si era alla vigilia della guerra in cui occorreva conservare l’esistente piuttosto che fondare nuove opere, ma per Gemelli costituiva un’occasione privilegiata per la formazione, l’aggiornamento, l’interpretazione delle vicende di un periodo cruciale della storia per un pubblico più vasto rispetto a quello dei lettori della “Rivista di filosofia neo-scolastica”. In tal senso il taglio più divulgativo della rivista.

Ma questo entusiasmo per l’attività dei tre amici non bastò ad Armida: le difficoltà finanziarie e il rapporto difficile con i familiari la minarono anche nel fisico: iniziò ad avvertire qualche problema a un rene. Padre Arcangelo commentò: “Dopo lo spogliamento della roba, lo spogliamento della salute, che è il capitale più prezioso. Ecco la vera povertà. San Francesco le vuol bene”.

Dal suo letto Armida seguiva i discorsi su opere future di Gemelli e vedeva prendere corpo nella sua mente l’idea di fondare un’Università Cattolica. Lei era un po’ disfattista: la guerra imminente non invogliava a costruire. “Ma dopo la guerra bisognerà riedificare. E guai se non saremo preparati!”: così le rispondeva padre Agostino.

Le ritornò alla mente il pensiero di entrare in clausura per offrire la sua vita al Signore come lampada che si consuma. Anche qui Gemelli intervenne energicamente ribadendo che non la vedeva come una contemplatrice ma come la “cucitrice” delle loro opere. All’immagine della lampada sostituì quella della cucitrice.

La consacrazione dei soldati al Sacro Cuore durante la prima guerra mondiale

Il primo venerdì del gennaio 1917, grazie all’attività organizzativa di Armida, in tutti i reggimenti, gli ospedali e i distaccamenti dove c’erano soldati italiani (anche in Albania, in Macedonia, in Libia) ci fu la solenne consacrazione dell’esercito italiano al Sacro Cuore. Il fine era esclusivamente religioso (non si fece tutto questo per vincere la guerra), infatti fu l’occasione per i soldati di accostarsi ai sacramenti, dato che le sofferenze e le difficoltà della guerra favorivano l’avvicinarsi al conforto divino e maturavano la spiritualità di quei militari, dando loro la speranza di vincere e la serenità dinanzi alla morte.

Presidente della Gioventù Femminile di Azione Cattolica a Milano...

Nel dicembre del 1917 l’arcivescovo chiamò Armida e le parlò dell’ignoranza religiosa delle ragazze che, contrariamente a quanto accadeva per i ragazzi dell’Unione Giovanile Cattolica Milanese, non avevano modo di prepararsi ad affrontare le attività (e le insidie) che la società allora offriva nel mondo del lavoro. Le chiese quindi di collaborare con lui nella formazione di questa gioventù. Armida, pur titubante, stava per accettare ponendo come condizione, secondo la propria indole e l’esperienza pregressa, che si trattasse di lavoro a tavolino e di beneficenza. Il cardinale le fece capire che era proprio l’esatto contrario: si trattava di andare nelle parrocchie della vasta diocesi e parlare alle giovani offrendo le motivazioni per il rifiuto della propaganda marxista.

Ad Armida si strinse il cuore e un grande terrore l’afferrò: lei andare in giro da sola per paesi e borgate a parlare in pubblico, magari nelle piazze. Non era la sua attitudine. Abituata a una religiosità individuale e intimistica e a una riservatezza di carattere proprio non si vedeva in quel compito. E rifiutò decisamente.

Quando ne parlò con padre Arcangelo ebbe rimbotti anche da lui: “Bel sistema! Dio le chiede una cosa e lei gliene propone un’altra. Perchè vuole servirlo a modo suo? Questa non è povertà di spirito”.

Così ritornò dal cardinale dando la disponibilità a fondare la Gioventù Femminile nella diocesi di Milano.

...e in Italia

La sera del 9 settembre 1918 dall’idea di un’Università Cattolica si passò al ferreo proponimento di realizzazione e si cominciarono a definire le strategie di azione. Il tempo dirà poi che la Gioventù Femminile costituì per almeno tre decenni la principale struttura di propaganda e di sostegno materiale dell’Università.

Quando il Papa glielo chiese, pur ammirando l’idea, Armida cominciò ad avere alcune fondate titubanze: come poteva lei, presidente di Gioventù Femminile di una sola diocesi, sia pure grande, trovare dei fondi, anche in considerazione del fatto che a quei tempi non circolava molto denaro e soprattutto le ragazze non ne maneggiavano tanto?

Padre Serafino Cimino, ministro generale dei frati minori a cui si era recata per consiglio suggerì: “Dica pure tutte le sue ragioni al Santo Padre, ma poi obbedisca. Ricordi che noi francescani nulla chiediamo e nulla rifiutiamo mai alla Chiesa”.

Armida dal papa professò tutte le sue ragioni, parlò di come aveva fondato a Milano la Gioventù femminile, della nascente Università Cattolica per la quale aveva promesso aiuto a padre Gemelli, dell’Opera del Sacro Cuore per la consacrazione dei soldati e che altri progetti aveva ancora. Il papa, ammirato dall’entusiasmo e dalla saggezza che coglieva in quella signorina, serenamente le rispose: “Lei continui il suo lavoro. Invece di andare a fondare la Gioventù Femminile nei paesi della sua diocesi, andrà a fondarla nei capoluoghi diocesani, ecco tutto”.

“Oh, Santità, è ben diversa la cosa! Altro è andare a fondare un’associazione in un paese, bene accolta e aiutata dal parroco e tornare poi a casa la sera, altro è girare l’Italia. Non ho mai viaggiato sola, non ho mai lasciato la mamma. Non ho mai parlato in pubblico. Come presentarmi ai vescovi, organizzare la Gioventù Femminile nelle grandi città? No, no, non sono capace, non posso, non posso!”.

Ma il papa fu irremovibile e quando Armida tentò l’ultima argomentazione inoppugnabile, quella della vocazione religiosa per andare suora in missione, il papa replicò: “La sua missione è l’Italia. Rispondiamo noi a Dio della sua vocazione”. E così con l’autorità del papa, a sigillo di quanto detto dai vari confessori, veniva definitivamente messa la parola fine al suo desiderio di convento.

Non presidente ma “sorella maggiore”

Non volle che la chiamassero presidente. Diceva: “Presidente è la Madonna che ci protegge. Io sono la sorella maggiore, la sorella di tutte, uguale a tutte, solo più carica di esperienza”. Di conseguenza chiamava sorelle le sue associate, un termine significativo: chiamarle “carissime” sarebbe stato troppo generico e formale, “amiche” troppo convenzionale ma “sorelle” implica una uguaglianza che dà alla maggiore solo un primato di responsabilità.

Armida non perdeva mai tempo. In treno pregava o lavorava, trasformando le difficoltà in opportunità.

Le vicende belliche appena trascorse e il suo ruolo di Sorella Maggiore la spronarono nel compito di guida, usando un linguaggio militare. Ecco cosa scriveva nel “Bollettino dell’Unione Donne Cattoliche d’Italia” del 15 aprile 1919:

“Che cosa è e che cosa vuole la Gioventù Femminile Cattolica Italiana? Che cosa è innanzitutto? Una mobilitazione. Quando la patria è minacciata si chiamano a raccolta i soldati, si forniscono i reggimenti, si mandano a combattere. Oggi è minacciata la fede, e noi chiamiamo a difenderla il baldo esercito giovanile femminile, certe come siamo che se mobilitiamo tutti i nostri soldatini in gonnella, non solo difenderemo il nostro patrimonio religioso, ma otterremo quella rinascita cristiana della nostra Italia, che è in cima ai nostri pensieri.

Ecco cosa vuole la Gioventù Femminile Cattolica Italiana: irreggimentare le centinaia di migliaia di giovani disperse e perciò deboli e farne una forza, una grande forza; dare loro la coscienza di questa forza e farla valere in difesa della Chiesa e del suo Maestro divino. Per raggiungere la vittoria però è necessaria la preparazione: con soldati incapaci di tenere il fucile, nessun esercito ha vinto mai. Urge quindi la formazione della Gioventù Femminile Cattolica Italiana”.

L’Università Cattolica intitolata al Sacro Cuore

Circa l’episodio del milione del conte Lombardo, Gemelli, ebbe a dire: “Solo in nome del Sacro Cuore sono riuscito a piegare la signorina Barelli a un’opera di apostolato intellettuale. Solo in nome del Sacro Cuore lei è riuscita a ottenere un milione. Evidentemente l’Università deve intitolarsi al Sacro Cuore, come abbiamo promesso”.

Questa intitolazione comunque non era così scontata. Nonostante le robuste argomentazioni dei tre amici, pesavano le perplessità di Benedetto XV e del cardinal Ferrari, oltre ai sorrisi sarcastici degli altri componenti del comitato, che vedevano quel nome più adatto a un asilo di suore che a un istituto di elevata cultura.

Ma Gemelli, Barelli, Necchi e Olgiati erano legati a un voto. E allora Gemelli, con tutto il suo spirito battagliero ebbe a dire: “O si chiamerà Università del Sacro Cuore o non si farà”. E la Barelli incalzò: “Se non la intitoleremo al Sacro Cuore, con le nostre sole forze non ce la faremo, e falliremo”. Del resto - aggiunse - “non vi è nulla più scientifico del Sacro Cuore, dato che è la sede della sapienza e della scienza”.

L'inaugurazione

Il 7 dicembre 1921 vi fu l’inaugurazione dell’anno accademico. Il giorno precedente l’arcivescovo Achille Ratti aveva celebrato solennemente l’eucaristia nella piccola cappella dell’Università Cattolica. Durante l’offertorio (parte della liturgia della messa durante la quale il sacerdote compie l’offerta del pane e del vino a Dio) padre Agostino e Armida, in accordo col cardinale, offrirono la loro vita per l’Università.

Dopo gli undici discorsi proposti, tra cui quello programmatico di Gemelli, fu ascoltato con grande attenzione anche quello della cassiera. Nel suo intervento Armida fece intendere che il vero tesoro della cassa dell’Università era di natura spirituale: un continuo miracolo del Sacro Cuore a opera della provvidenza che suscitava la generosità di benefattori anonimi e poveri essi stessi.

Circa la dedicazione dell’Università al Sacro Cuore, a padre Gemelli non mancavano certo le argomentazioni per ribattere agli oppositori, ma quella percentuale di rischio che si profilava circa la mancanza di riconoscimento faceva tremare le vene ai polsi. Per non assumersi da solo la grave responsabilità riunì il Comitato promotore e si consultò circa l’opportunità di mutilare lo statuto di quel primo articolo. La paura di fallire fece di necessità virtù e tutti a malincuore e con grave tormento interiore dissero che era meglio assecondare l’idea del Gentile. Unica obiezione quella di Armida Barelli. Gli animi, gravati dall’indecisione, furono resi ancora più confusi. Quella confusione, quel tormento interiore, quella paura di sbagliare attanagliava tutti. Gemelli, l’uomo d’azione, sbloccò la tensione che si era prodotta. Ritornò a Roma con le persone in quel momento più vicine, Necchi e Barelli, e insieme si recarono dall’unico che aveva autorità e autorevolezza per sciogliere quel dubbio: Pio XI.

Il papa li accolse cordialmente, ascoltò il loro cruccio e propose di accettare il consiglio diplomatico di Gentile. In quel momento si udì il pianto di Armida. Appena si riprese, intervenne e disse: “Padre santo, noi faremo ciò che lei deciderà, ma la prego di considerare ancora: questo nuovo articolo conserverà in futuro il carattere cattolico dell’Università? La prego, ci dica ciò che dobbiamo fare”. Ora piangevano anche Gemelli e Necchi. Il papa stette ancora un attimo in silenzio, poi disse: “E’ vero. Ha ragione la signorina Barelli. E’ la voce della fiducia nel Sacro Cuore che parla in lei: accettiamo il suo parere. Bisogna pensare anche all’avvenire, perciò affrontiamo la battaglia. Domattina celebrerò la santa messa perché sia fatta la volontà di Dio”.

L’attività di Armida per promuovere l’Università

La presenza di Armida in Università era di sollecito per la sottoscrizione di abbonamenti alle riviste, la spedizione delle tessere, l’archiviazione dei dati delle associate sfidavano i disservizi degli enti preposti e richiedevano l’attento lavoro svolto volontariamente da socie della Gioventù Femminile e da qualche signorina della famiglia spirituale delle consacrate.

Il buon andamento dell’amministrazione era una forma di rispetto verso coloro ai quali erano rivolte le sue attività e dava un’immagine positiva a coloro che contribuivano anche economicamente alle diverse realtà in via di consolidazione. E poi ogni disservizio (spesso a causa di scioperi o boicottaggi o tumulti) si prestava alle feroci critiche degli anticlericali. In quel periodo scioperi e problemi di ordine pubblico minavano la sicurezza durante le adunate, pure nelle chiese. Inoltre durante le adunanze e i pellegrinaggi capitava di essere presi a sassate o che i treni sospendessero il servizio impedendo alle signorine il ritorno a casa e facendole fermare a dormire in luoghi impensati.

Inoltre gli incontri, le adunanze, la formazione, i colloqui personali assorbivano e coinvolgevano tanto Armida che ebbe modo di scrivere alle associate: “Se il Sacro Cuore non provvede, la vostra povera Sorella Maggiore finirà per rimanere senza cuore, tanto ognuna delle sorelline se ne porta via un pezzetto quando l’avvicina”.

Tanto dinamismo in Italia non le impedì di pensare concretamente anche alle missioni. La sua idea era quella che la Gioventù Femminile si occupasse della gestione economica di una missione intera in altro continente provvedendo alle spese di missionari, suore, costruzione di chiese, alloggi, scuole. Benedetto XV, interpellato al proposito, mutò l’ambizioso progetto iniziale in uno più fattibile istituendo “il missionario della Gioventù Femminile”, in modo tale che l’associazione potesse occuparsi di un solo missionario, per il quale raccogliere offerte e dal quale ricevere notizie sul bene operato. Fu scelto un missionario francescano in Cina.

Le attività si facevano più intense. Ora Armida si occupava dell’amministrazione e della propaganda per l’Università Cattolica, della direzione e amministrazione della Gioventù Femminile, dei convegni regionali, della stampa e della cura dei rapporti epistolari con persone e realtà diverse. All’inizio di nuove imprese tutto ruota attorno a chi porta il peso di predisporre il sentiero attraverso il quale inoltrarsi. Per ribadire il valore del soprannaturale, che dava senso all’attività delle dirigenti, Armida citava spesso una delle frasi di Santa Giovanna d’Arco, una delle patrone dell’associazione: “Gli uomini d’arme combatteranno, ma Dio darà la vittoria”.

L’istituzione della Giornata Universitaria

Il 9 dicembre 1923 si inaugurò il terzo anno accademico dell’Università Cattolica e contestualmente la nuova ala dedicata a Pio XI, costata un milione di lire. La cassiera spiegò che mentre il primo milione del 1919 per l’acquisto dell’edificio di via Sant’Agnese fu dato con un solo assegno, questo secondo milione fu raccolto centesimo su centesimo (neanche a banconote) dalla generosità dei cattolici italiani. Così Armida sottolineava il valore morale di tale somma che trascendeva il valore materiale del milione stesso.

Ma questo non liberava i nostri fondatori dal timore di non riuscire ogni anno ad avere una somma adeguata per il funzionamento dell’Università. A complicare la situazione si aggiungeva il clima politico arroventato. Occorreva proprio che la Giornata universitaria fosse voluta dal papa per tutte le diocesi e non lasciata solo alla buona volontà dei vescovi, come avvenne nel marzo del 1924 con il decreto tanto sospirato da Armida, che diede maggior sicurezza ma anche procurò maggior impegno per organizzare in tutte le parrocchie la raccolta e la sensibilizzazione per l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

La sorpresa della croce d’oro

Nel settembre 1925 si svolse a Roma il Congresso della Gioventù Femminile che Pio XI aveva voluto ospitare in Vaticano. Dopo i lavori congressuali e l’udienza dal papa con relativa benedizione del nuovo labaro (il loro vessillo), Armida ricevette una inaspettata e gradita sorpresa. Uscite le delegate nel cortile di San Damaso, invece di andare via si raccolsero in un gran cerchio attorno ad Armida. L’assistente ecclesiastico generale, presa da un astuccio una croce d’oro, la benedisse con padre Gemelli e la porse alla Sorella Maggiore quale dono delle convegniste spiegando che la croce è il segno della fatica organizzativa della presidente, è d’oro per nascondere sotto lo splendore del metallo prezioso la pesantezza di essa. La Sorella Maggiore l’avrebbe portata quale segno di amore e di obbedienza. La marchesina Pallavicino passò la catena al collo di Armida e l’abbracciò e nome di tutta la Gioventù Femminile. Armida gradì particolarmente anche perchè il crocifisso conteneva autentiche reliquie delle sante protettrici della Gioventù Femminile e dei santi sotto la cui protezione aveva posto la sua vita: San Francesco d’Assisi e Santa Elisabetta d’Ungheria.

Risentì l’eco delle parole del papa pronunciate poco prima alla Gioventù Femminile: “Quello che avete fatto nel campo dell’apostolato, quello che fate è così grande, così bello, così ammirato in tutto il mondo cattolico, per cui degnamente appartenere a questa organizzazione non può non essere un segno della predilezione non solo del cuore nostro, ma del cuore di Dio”. E concludendo: “Siamo lietissimi di avervi volute vicino a noi, nella nostra stessa casa, o meglio nella vostra casa, perchè la casa del Padre è la casa stessa dei figli”.

In quella circostanza padre Gemelli, nel suo discorso, riconobbe all’azione femminile il più valido aiuto al sorgere e allo sviluppo dell’Università Cattolica e in cambio di tale aiuto promise di ricambiare con il sostegno morale e intellettuale dell’Università all’organizzazione femminile: “Sono nate insieme - l’Università Cattolica e la Gioventù Femminile -, ricevono vita dalla stessa fonte inesauribile di grazie, hanno lo stesso ideale, combattono la stessa battaglia, auspicando un solo trionfo: l’avvento del regno sociale del Sacro Cuore”.

Il binomio di collaborazione si intensificava anche per la Giornata universitaria del marzo 1926. Armida, scrivendo come cassiera alle sue “sorelline”, dopo averle ringraziate per l’aiuto offerto, così proseguiva: “La grande mendicante, tendendovi ancora la mano vi dice: occorre di più quest’anno. E perchè? Perchè la sede attuale non basta più. Inoltre l’Università deve avere pensionati per i suoi studenti, la mensa a modico prezzo. Sapeste che pena veder gli studenti in cerca di pensione, e quelli poveri mangiar caffè e latte per unico pasto nella vicina latteria... E una sede più grande anche per il Consiglio superiore della Gioventù Femminile. E poi ci lascerai in pace, terribile cassiera? No. Quando avremo la sede, tempesteremo Gesù e voi per avere la facoltà di Medicina”.

 

L'ora della prova

Nel 1931 gli eventi politici precipitavano. Armida avvertì qualcosa in anticipo, infatti in una sua circolare scrisse: “Grande educatore il dolore, sorelle mie! Non cercatelo, ma quando viene prendetelo con sottomissione, portatelo con pazienza e fiducia, ricordando che la Croce è il grande mezzo adoperato da Dio per santificarsi e farci strumento di bene”.

In quei mesi accuse strumentali e infondate furono rivolte all’Azione Cattolica, diversi circoli furono incendiati e gli aderenti malmenati. La Santa Sede proibì le processioni fuori dalla chiese e il papa espresse pubblicamente il suo dolore per le gravi intimidazioni, calunnie e violenze all’Azione Cattolica.

Nel momento della prova e dell’inattività forzata occorreva però conservare quanto faticosamente costruito, senza creare ulteriori attriti col regime fascista. La genialità di Armida non si sottrasse a questa gestione “clandestina” dell’associazione. Poiché le dirigenti della disciolta Gioventù Femminile normalmente avevano ruoli di responsabilità anche nelle realtà sorelle della propaganda per l’Università Cattolica e nella dirigenza dell’Opera della Regalità, Armida - con l’avallo di padre Gemelli - cominciò a convocarle in tale veste non strettamente associativa organizzando convegni su temi inerenti la liturgia, quindi meno legati a temi sospetti di carattere politico o sociale.

Scrivendo la sua lettera nel numero di “Squilli di Risurrezione” che riprendeva le pubblicazioni, Armida così interpretò gli avvenimenti: “Dalla nascita della Gioventù Femminile abbiamo avuto tante gioie, un costante moltiplicarsi del numero delle socie, un fervore di opere. Ma a rafforzare e purificare il tutto mancava la prova, la croce. E la croce è venuta. Avremo animo di lamentarci per questo? No. Gettiamo i dispiaceri nel cuore di Cristo e vietiamo alla mente ogni ricordo amaro. Piuttosto, inginocchiamoci tutte a pregare e a ringraziare. E manteniamo le promesse fatte nell’ora della prova circa la ricostruzione della nostra associazione (collaborare con l’Opera della Regalità circa la stampa di opuscoli liturgici e la relativa diffusione, pellegrinaggio di ringraziamento a Lourdes e a Padova, rigore per la moda corretta)”.

La sede di piazza Sant’Ambrogio e la fiducia nel Sacro Cuore

La nuova sede adiacente alla basilica di Sant’Ambrogio era pronta nell’autunno del 1932. Armida era soprattutto preoccupata dall’enormità delle spese di ristrutturazione che non potevano essere compensate dalla vendita della vecchia sede che nessuno comprava o affittava. Spiegava: “La nostra Università è stata costruita con le ginocchia: finché in essa e attorno a essa non si spegnerà la preghiera, essa continuerà nel suo glorioso cammino”.

Il 29 ottobre il Santissimo, portato dal cardinal Schuster, da altri tre cardinali e quarantadue vescovi, dopo una solenne processione entrò nella nuova cappella. Durante i discorsi ufficiali Armida prese la parola. Leggeva ma le parole avevano il tono dell’improvvisazione per vivacità e calore. Cominciò col giustificare la presenza della Gioventù Femminile ricordando la profezia di Giuseppe Toniolo: “Accanto alle Marie della contemplazione e del sapere, ci vogliono le umili Marte, che provvedano alle necessità quotidiane”. Poi condivise con i numerosi presenti i ricordi del recente passato: l’incoraggiamento di Benedetto XV e la paterna sollecitudine di Pio XI, gli affanni della propaganda, l’istituzione della Giornata obbligatoria, il riconoscimento statale, l’acquisto della vecchia sede e i problemi per l’ottenimento e la ristrutturazione della nuova, gli aumentati studenti. Nel suo racconto si alternava la determinazione della volontà umana con l’intervento soprannaturale della provvidenza: “Il segreto della riuscita è l’immensa, profonda, costante, inalterabile fiducia nel Sacro Cuore”.

Prese poi la parola monsignor Mazzotti, giunto appositamente da Sassari, che disse: “Accanto alla fiducia nel Sacro Cuore, suggerita dalla signorina Barelli, un altro segreto occorre rivelare agli Amici. Questo segreto è l’adesione volenterosa, generosa alla volontà di Dio, sempre e dovunque, nelle ore liete e nelle ore di dolore, poiché il Signore non può volere altro che il nostro bene”.

La seconda guerra mondiale: l’Università bombardata

Erano crollati anche gli uffici della propaganda e degli Amici, i magazzini di Vita e pensiero, della Gioventù Femminile e dell’Opera della Regalità, l’appartamento di Armida.

Nonostante le perdite affettive e gli ingenti danni alla struttura, agli uffici, agli arredi, alla biblioteca - insomma il lavoro di venticinque anni - Armida scriveva agli amici: “Ma noi confidiamo sempre più nel Sacro Cuore”, non però in modo passivo, ma convertendo il dolore in forza, la contrarietà in opportunità.

Armida aveva perso proprio tutto: mobili, libri, carte di archivio, oggetti di famiglia, ricordi personali, i doni ricevuti dalla Gioventù Femminile e dai pontefici, beni di famiglia. Anche lei si vestì con gli abiti giunti, vincendo la repulsione a indossare abiti già usati da sconosciuti, ma in tal modo sperimentava la povertà insegnata da San Francesco.

Intanto la ricostruzione procedeva. I pur notevoli risultati della Giornata universitaria del 1944 non erano riusciti a coprire tutte le spese. Per la Giornata del 18 marzo 1945 padre Gemelli scrisse agli Amici: “Stendere la mano per chiedere l’elemosina è per un francescano un atto coerente alla sua vocazione di povertà, professata per amore di Dio. San Francesco per sua esperienza sa che egli può stendere la mano, sicuro di essere esaudito, a chi è povero, come poveri siamo divenuti ancor di più, tutti noi italiani”. Faceva eco la Barelli chiedendo a tutti “la preghiera più fervida, la propaganda più ardita, la questua e raccolta di fondi più ingegnosa per questa cittadella dello spirito, la quale, formando con una sana dottrina dirigenti profondamente cattolici, darà il massimo aiuto alla ricostruzione cristiana d’Italia”.

L’Italia della ricostruzione e del voto alle donne

Una nuova battaglia attendeva Armida: alle donne quell’anno era stato riconosciuto il diritto di voto, al quale non erano preparate, e tutti i partiti, confidando nella loro forza numerica, a vario modo le corteggiavano. Ebbe a rispondere a chi ne caldeggiava la candidatura: “So che attirerei molti voti, ma non ho la preparazione necessaria”, preparazione che venne trovata in diverse giovani che entrarono nei consigli comunali e provinciali, e otto furono elette anche in Parlamento.

Armida si impegnò a formare una coscienza civica nelle donne di Azione Cattolica. “Ardire e ardore” fu il motto coniato da lei per l’occasione, chiedendo a ogni socia preghiera, sacrificio, studio, propaganda, azione, oltre a impostare un lavoro capillare per arrivare a tutte al fine di istruire, guidare, incoraggiare. Tale nuovo diritto aveva reso baldanzose le donne più progressiste, messo in crisi quelle meno avvezze alla vita pubblica, creato una forte sacca di indifferenti, che si deresponsabilizzavano adducendo che non era campo loro, che non se ne erano mai occupate, ecc... Armida capì l’urgenza dell’ora presente e chiese al papa un pronunciamento ufficiale sui nuovi compiti che si aprivano all’attività femminile, come di fatto avvenne.

Nel frattempo aveva già scritto alle sue socie un testo chiaro e illuminante: “Che cosa chiedo a voi, ora che la guerra delle armi è finita, ma non c’è ancora la pace degli animi? 1. Intensificare la vita interiore; 2. partecipare alla vita sociale. Sapete che è stato concesso il voto alle donne. E’ un esercizio di attività politica nuova per noi: dobbiamo prepararci, dobbiamo capire quali sono i principi sociali della Chiesa per esercitare i nostri doveri di cittadine. Siamo una forza in Italia, noi donne. Su 100 voti, 47 sono per gli uomini, 53 per le donne. Se noi siamo concordi, possiamo mandare al potere coloro che difenderanno la religione e la Chiesa, la famiglia, la scuola, la patria”.

Le dimissioni da Presidente della Gioventù Femminile

Ida ripresentò al Papa le dimissioni motivate dall’età che avanzava e dall’ora storica che richiedeva energie fresche per fronteggiare la nuova sfida del voto, ma il papa la pregò di restare, almeno per un anno ancora, anno che si presentava decisivo per l’Italia.

Durante il corso delle dirigenti a Castelnuovo Fogliani, qualcuna di loro fece capire che i tempi erano cambiati e le ragazze non volevano più essere trattate da “sorelline”. Quella volta nella solitudine della sua stanza Armida pianse e ritenne opportuno ripresentare le dimissioni al papa che questa volta le accettò, nominandola però nell’ottobre 1946 vice presidente generale per le associazioni femminili, un impegno che le chiedeva maggiore presenza a Roma.

Scrivendo il suo commiato alle “sorelline” ebbe modo di dire: “La Gioventù Femminile ha oggi una nuova presidente centrale, ma conserva la sua Sorella Maggiore. Sì, perchè si può cedere la carica, ma non la parentela”. E concludeva lasciando il dono e la consegna di una vita, o come diceva lei, “il talismano della felicità”, cioè un oggetto a cui si attribuisce un potere prodigioso e quindi si conserva e si porta dappertutto: la fiducia nel Sacro Cuore, capace di compiere insperate meraviglie. Scriveva: “Si, confidate in lui sempre, nelle ore liete per non prevaricare, nelle ore tristi per non soccombere, nelle difficoltà per superarle, nelle prove per valorizzarle, nel lavoro per compierlo soprannaturalmente, nella scelta dello stato per capire e fare la volontà di Dio, in ogni contingenza della vita, onde vivere sempre in stato di grazia, ed essere in grazia nell’ora della morte, quando egli vorrà, che sarà dolce sul suo Cuore”.

Giunge sorella morte

In quel fervore, fondamentale risultava l’opera di Armida. Era la cassiera dell’Università, ma per riempire quella cassa si giovava dell’impegno, dell’entusiasmo, del coraggio delle ragazze della Gioventù Femminile. E, per conciliare i due ruoli, viaggiava continuamente per tutta l’Italia. Una volta padre Gemelli l’ammonì: “Signorina, lo sa che non ha più vent’anni”. E lei di rimando: “E se il Signore mi dà l’energia dei venti, perché non devo profittarne?”.

Monsignor Mazzotti ebbe il compito di preparare alla morte Armida, ormai condannata dall’avanzare inesorabile del male. Finalmente le parlò e le espose la gravità della sua situazione. “Volontà di Dio, - commentò lei - mi fido del Sacro Cuore”.

Pur nella sofferenza non si sottrasse a qualche viaggio e continuava il suo lavoro a tavolino. Soleva dire: “Se non posso più parlare, posso però pregare, pensare, amare, scrivere e dirigere le Opere. E ringrazio Dio!”.

Pio XII inviò un telegramma firmato da lui stesso, come avrebbe fatto per una regina, in cui definì Armida “l’anima eletta che ha servito la Chiesa con fede piena e dedizione assoluta”.

Teresa Pallavicino, ora sua esecutrice testamentaria, diede a Gemelli due lettere di Armida, lasciate per lui con l’incarico di consegnarle dopo la morte. La prima era stata scritta l’11 febbraio 1935 (venticinquesimo della loro amicizia). In un passaggio scriveva: “La sua santità è stata il sogno della mia vita, l’oggetto delle mie fervide preghiere! Ma se quaggiù ho contribuito poco, e fors’anche ostacolato il raggiungimento di questa meta divina, dal Cielo le darò un efficace aiuto, vedrà! La mia morte sarà il colpo d’ala per la sua santificazione. Voglio anche chiederle perdono di tutto ciò che in me le è dispiaciuto; tante volte, soffocata dal lavoro, ho mancato di carità verso di lei: mi perdoni. In paradiso riparerò”.

La seconda lettera è quella scritta in occasione del quarantesimo della loro amicizia, l’11 febbraio 1950. Qui Armida non parla più della sua morte come colpo d’ala alla santificazione di Gemelli: “Il Signore le ha dato una grossa croce nell’infermità provocata dai due incidenti automobilistici. Lei ha portato bene la grossa croce, ed essa è valsa a santificarla”. Poi conclude: “Il Signore le dia sanità e santità per completare e sistemare bene l’Università, istituendo le nuove facoltà di Agraria e di Medicina. In futuro vorrei anche Scienze, Matematica, Ingegneria per l’Università del Sacro Cuore”.

Padre Gemelli pianse nel chiuso del suo studio, poi si mise subito all’opera e stese per il mensile degli Amici un profilo biografico della sua più grande collaboratrice rivelando particolari, anche inediti, relativi al ruolo da lei avuto nella fondazione dell’Università, nel finanziamento, nel mantenimento del primo articolo dello statuto. Sentiva che se Necchi aveva iniziato la sua conversione, la Barelli l’aveva incoraggiata e rafforzata.

Un articolo di

Agostino Picicco

Agostino Picicco

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