Partigiana, madre costituente, parlamentare e docente. In questo tragico e impensabile 8 marzo di guerra la testimonianza di Laura Bianchini è un messaggio inequivocabile per chi voglia farsi costruttore di pace.
Nata a Castenedolo all’inizio del ’900 da una famiglia non abbiente, era dotata di un’acuta intelligenza e di una profonda fede cristiana, che contribuirono a renderla una figura femminile di rilievo nel Novecento italiano. In anticipo sulle lotte per l’emancipazione delle donne, assunse nella sua vita responsabilità pubbliche che hanno segnato la storia democratica del Paese.
Laura Bianchini ha scardinato la chiusura di mondi riservati a soli uomini. Nell’università, dove conseguì alla Cattolica di padre Gemelli due diplomi di laurea nel 1928 e nel 1932, in Filosofia e in Pedagogia. Nel mondo editoriale, dove fu assunta come redattrice per l’editrice La Scuola, collaborando con la Morcelliana. Nella scuola, come docente di filosofia e storia al liceo classico Arnaldo.
Durante il fascismo, grazie alla formazione nella Fuci e nel Movimento laureati dell’Azione cattolica e alla familiarità con l’oratorio della Pace, divenuto per opera di padre Bevilacqua e di padre Manziana, un luogo alternativo al “totalitarismo educatore” del regime, maturò il suo convinto antifascismo, riflettendo sulla «crisi di civiltà» e sul Vangelo come «annuncio di libertà e forza di liberazione». Tra il ’43 e il ’45 divenne un’esponente di spicco della Resistenza lombarda, nelle «Fiamme Verdi»: prima a Brescia e poi a Milano, dove fuggì per evitare l’arresto spendendosi nell’assistenza a ebrei e a rifugiati politici, ma anche nella redazione di editoriali per «il ribelle».
Negli scritti clandestini la Bianchini insistette molto sulla «smobilitazione degli spiriti», cioè sull’importanza dell’educazione alla pace per eradicare definitivamente i conflitti. Smobilitare gli spiriti significava impegnare donne e uomini in un programma «rivoluzionario». Significava «neutralizzare gli effetti di una ventennale educazione all’odio, alla violenza, al disprezzo della vita umana, al culto della forza, a un esasperato nazionalismo imperialista, per instaurare a base della vita personale, nazionale e internazionale, la reciproca comprensione, il rispetto del diritto, l’esercizio della solidarietà». Parole che restano di un’attualità sconcertante.
Nel lungo e tortuoso cammino delle donne nella modernità, la partecipazione femminile alla Resistenza – oltre a scalfire consolidati stereotipi di genere e a modificare il senso di una responsabilità personale e sociale – rappresentò una cesura importante, introducendo una conquista epocale e irreversibile: il diritto di voto.
Il 2 giugno 1946, la Bianchini fu tra le ventun donne elette alla Costituente (terza per numero di voti) su un totale di 556 deputati. Entrata nel 1948 nel primo Parlamento repubblicano, contribuì alla complessa ma feconda opera di ricostruzione economico-sociale ed etico-civile del Paese, accanto a figure esemplari della politica nazionale come Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Aldo Moro, cui fu legata da vincoli di stima e di amicizia.
Per ragioni che ancora attendono di essere chiarite, non venne più candidata dalla Dc bresciana e fu costretta a lasciare la vita politica. Con profonda amarezza, ma senza polemiche, tornò a dedicarsi all’insegnamento al liceo Virgilio di Roma, dove rimase a vivere e dove si spense a ottant’anni, il 27 settembre del 1983. Il fecondo dialogo che seppe alimentare tra vita e pensiero, vangelo e società resta un modello non solo per le donne ma per tutti coloro che vogliono dare spessore al verbo della libertà.