Eccellenze Reverendissime,
Illustre Signora Sindaca,
Amplissimi Presidi e chiarissimi professori,
Illustre cavaliere Giorgio Armani,
Care studentesse e cari studenti,
Signore e signori,
La Facoltà di Economia e Giurisprudenza ha deciso di conferire la laura h.c. in global business management a uno dei figli più illustri della città di Piacenza, che ne ha onorato l’immagine nel mondo.
Sarà la Preside, prof.sa Anna Maria Fellegara, a esporre le specifiche motivazioni di questo atto solenne, che peraltro immediatamente si giustifica di fronte all’evidenza della realtà imprenditoriale che, in decenni di appassionato lavoro, Giorgio Armani ha saputo creare.
Impresa importante, di enorme successo, ma un’impresa indubbiamente particolare, perché vive di una sintesi di finezza estetica, originalità, visione e abilità nella manifattura. Si realizza, così, quella che Papa Francesco ha definito, in un discorso rivolto proprio alle università, come armonia delle tre intelligenze: della mente, del cuore e delle mani.
Lo stile non è solo eleganza del disegno, equilibrio delle forme, ma narra di come ciascuno si pone di fronte agli altri, decora gli ambienti in cui vive, sceglie di rappresentarsi; ed è, innegabilmente, espressione di una cultura, individuale e collettiva. E del resto, diceva l’arbiter Petronio, una mente non può essere creativa se non è intrisa di cultura (“flumine litterarum inundata”).
Ma ascoltiamo le nitide parole dell’odierno laureato:
«La moda per me è un mestiere, fatto di fantasia e di concretezza, di intuito e di rigore, di slancio e controllo. […] Non nasce dal canto delle muse, da uno stordimento poetico, da un raptus creativo. Fare moda vuol dire elaborare un’idea coerente di bello e condividerla con il tuo pubblico, tenendo conto delle diverse realtà della vita contemporanea». Questa definizione che Giorgio Armani dà di sé nel recente libro autobiografico Per amore[1] è, insieme, una dichiarazione d’intenti e il bilancio di una straordinaria carriera di cui l’«invenzione pragmatica», la sintesi tra progetto e prodotto, è stato il fulcro. Le testimonianze della persistenza e della coerenza di ispirazione e di metodo sono innumerevoli: un’intervista che risale al 1980, a cinque anni dalla fondazione dell’azienda che porta il suo nome, Armani si definisce di volta in volta «operaio, capomastro, geometra, architetto della moda», aggiungendo: «lo stilista, oggi, non può non essere un manager»[2].
Tra le due esternazioni trascorrono più di quarant’anni, ma i principi si mantengono coerenti, e anche il tono di voce con cui si esprimono, insieme garbato e persuaso di sé, rimane inalterato: segno dell’organicità delle scelte che hanno contraddistinto, fin dagli esordi, la presenza di Armani nel mondo della moda.
Ci sembra di ritrovare, con lui, la cifra che aveva presieduto alla nascita e allo sviluppo delle botteghe artistiche nel Rinascimento italiano, organizzazioni «segnate da un forte accento artigianale», in cui i processi produttivi erano strutturati per corrispondere a committenze molto varie e tutti gli aspetti dell’attività artistica – dall’idea creativa, alla contabilità, alla pubblicità - si concatenavano l’un l’altro in un sistema di riferimenti e rapporti capaci di restituire una particolare fisionomia al prodotto finito. Proprio l’intreccio indistinguibile tra invenzione e manifattura aveva disegnato il tessuto di quel fervido periodo creativo, trasformando la penisola in una «grande officina» (per usare la definizione del grande storico dell’arte del Rinascimento André Chastel)[3].
Per molti aspetti, quell’esperienza mirabile si è trasferita per osmosi nella parte più sensibile e raffinata del design italiano contemporaneo, che ne ha espresso la sua specifica versione nell’era del capitalismo industriale orientato alla produzione di massa, quando il progetto creativo ha cominciato a riguardare «categorie di oggetti» piuttosto che un unico e irripetibile esemplare.
È un passaggio centrale, che l’antropologo Arjun Appadurai così riassume: «Non è che non ci sia connessione tra l’arte e il design; è che il design media piuttosto la relazione tra l’arte, l’ingegneria e il mercato. E mentre gli ultimi due sottolineano la ripetizione e la mercificazione, la prima accentua la singolarità»[4].
È proprio in questo punto che, con tocco suo proprio, si colloca il «mestiere» di Armani, che lega indissolubilmente creatività e impresa attraverso una variabile che si mantiene indipendente e distintiva rispetto alle diverse declinazioni, applicazioni, esperienze attraversate lungo la strada. «L’arte, quella vera, con la A maiuscola – scrive lo stilista - è fatta per durare. La moda, invece, si esaurisce rapidamente, rinnovandosi senza sosta, ed è legata alla quotidianità. Ha anche a che fare con usi, costumi e consumi, con i ruoli, con la rappresentazione del singolo e della società. È un’espressione importantissima della cultura di ogni popolo, ma al più è arte applicata. Io ho sempre visto il mio ruolo vicino a quello di un sociologo, più che a quello di un artista. Ho sempre offerto al mio pubblico strumenti nuovi, di emancipazione e di autorappresentazione, capaci di dare nuovi significati a gesti quotidiani».
In realtà, come diceva Walter Benjamin già nel 1936, nell’epoca della riproducibilità tecnica si è smarrito “l’hic et nunc dell’opera d’arte – la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si trova».
Però alla creazione artistica la produzione industriale offre nuove e molteplici opportunità, anche attraverso i prodotti accessibili alle masse. E tuttavia, quella creatività deve confrontarsi con l’inevitabile transitorietà di ciò che è produzione di massa.
Ed ecco qui il punto cruciale, lo snodo, la grande ossessione: il tempo. Se le ragioni di esistenza della moda, prodotto sociale in sé effimero e obsolescente, escludono il restare, qualsiasi riflessione sullo stile non può che orientarsi invece al durare. Ne nasce così una contraddizione di cui è rilevante leggere il senso; come fa argutamente Roland Barthes in un articolo, apparso nel 1967 su un periodico di moda [5], a proposito di quello che definisce il match fra Coco Chanel e André Courrèges che allora divideva l’alta moda francese: «Chanel, si dice, evita alla moda di sconfinare nella barbarie, la colma di tutti i valori dell’ordine classico: ragione, naturalezza, permanenza, gusto di piacere e non di stupire. […] Courrèges, si dice, veste le donne del 2000, che sono le ragazzine di oggi […] e viene gratificato di favolose qualità di innovatore assoluto: giovane, tempestoso, galvanico, virulento, pazzo per lo sport, amante del ritmo, temerario fino alla contraddizione […]. Tutto ciò dà l’impressione che qualcosa d’importante separi, a tutti i livelli, Chanel e Courrèges – qualcosa di più profondo della moda, o almeno di cui la moda è solo la circostanza di apparizione. Che cosa?»[6].
Classicismo versus modernismo, tradizione versus innovazione; il tempo sublimato e dunque intramontabile dello chic in rapporto a una moda giovane perché intesa come sempre nuova: in questo «duello» Barthes ravvisa, più che una scelta di campo, una necessaria fenomenologia sociale, e nei «nomi di Chanel e Courrèges […] le due rime necessarie dello stesso distico o le opposte prodezze di una coppia di eroi senza le quali non ci sarebbe una bella storia».
Ecco, un bilancio complessivo dell’opera di Giorgio Armani potrebbe essere stilato a partire da questo punto di partenza: vale a dire, dall’assunzione in tutte le sue implicazioni, della dimensione problematica del tempo. La durata, per Armani, è una scelta che riguarda la forma e il contenuto: classicità delle linee e qualità della materia parlano di un prodotto pensato per resistere con disinvoltura all’esaurirsi di una collezione. Ma la novità della sua proposta ha a che fare con la sensibilità e la tempestività nell’interpretare attitudini, ruoli e funzioni dell’uomo e della donna contemporanea, senza forzature: «essere se stessi, ma al meglio».
In questo senso si può parlare di classicismo di Armani, non come petitio principii, ma come prodotto di un’estetica innervata di tensioni dinamiche al modo della grande scultura classica; il frutto, nato quasi d’istinto e poi perseguito con coerenza, di un dialogo mobile e aperto con l’uomo.
«L’essenza del classico - scriveva Georg Simmel, uno dei padri della sociologia, nel suo celebre saggio "La moda" (1910) - è una concentrazione del fenomeno intorno a un punto fisso centrale, la classicità ha un carattere raccolto, che non offre per così dire appigli su cui innestare modifiche che possano portare a un turbamento o a una distruzione dell’equilibrio. La scultura classica è caratterizzata dal convergere delle parti, dal dominio assoluto che l’interno esercita sull’insieme, dal fatto che ogni singola parte è pervasa dallo spirito e dal senso di vita della totalità del fenomeno attraverso la sua compatta connessione visibile»[7].
Il classico di Armani non teme la modernità, anzi, la accoglie, la interpreta e spesso la anticipa: in lui il designer e il sociologo si muovono in sincrono come Dioscuri, protagonisti della «bella storia» prefigurata da Barthes.
L’uomo inventa il vestito per proteggersi dalle intemperie, per nascondere la propria nudità, per farsi notare attraverso l’ornamento. «Questo è valido. – scrive ancora Barthes – Ma bisogna aggiungere un’altra funzione che mi pare più importante. Indossare un vestito è fondamentalmente un atto di significazione, dunque un atto profondamente sociale, installato nel cuore stesso della dialettica della società»[8].
L’idea è ripresa da Malcom Barnard in Fashion as communication (1986), in cui la moda diviene uno dei luoghi della tensione tra conformismo e individualismo, tra la tendenza all'uguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale.
In passato, l’abbigliamento è stato rigidamente codificato in termini di ciò che era permesso (socialmente, ma talora anche legalmente), opportuno, distintivo rispetto all’organizzazione in classi. Oggi, la grammatica del vestire ha acquistato in libertà e polisemia quello che ha perso in schematismo e convenzionalità: la moda è tanto più promiscua, plurale, ambigua quanto più è soggettiva, ma rimane ugualmente operante nell’esprimere valore sociale, oggettivando messaggi identitari e additando appartenenze, distanze, riconoscimenti. A produrre definizione non è tanto l’oggetto singolo, quanto piuttosto il contesto, vale a dire la relazione tra oggetti al centro dei quali si situa l’individuo-consumatore con le sue opzioni di scelta.
L’impulso ad allargare lo sguardo dall’oggetto al contesto è stato radice e conseguenza dell’espansione globale del marchio Armani, che oggi definisce uno «stile» non solo nell’abbigliamento, ma in vari settori di quello che viene in una parola definito il lifestyle. L’eclettismo delle scelte imprenditoriali non contraddice, anzi al più esalta, la coerenza umanistica dell’ispirazione: dalla giacca destrutturata, la più iconica delle creazioni di Armani, è nato per contiguità un progetto di casa, di albergo, di luogo di intrattenimento, attraversando le antiche passioni per il cinema e per lo sport ed estendendosi a profilare una personale interpretazione del glamour: «dietro c’è il mio occhio e dentro c’è il mio gusto», ama dire l’autore di questa complessa e sfaccettata creatura. All’orizzonte, c’è il futuro.
Le prospettive che si sono delineate in questi ultimi decenni impongono una ponderazione dei principi stessi che stanno alla base dei processi ideativi e produttivi. La loro sostenibilità, sociale e ambientale, comincia quando le ragioni di ciò che dura vincono su quelle di ciò che passa, lasciando tutte le sue cicatrici: questo – ci auguriamo - lo comprendiamo oggi meglio di ieri. Una lettera aperta, programmatica, pubblicata da Armani, in piena pandemia, su un periodico di settore [9], riflette su questi temi e ne affronta gli aspetti critici, con acuto senso di responsabilità e uno slancio appena temperato dal consueto pragmatismo. Ma non è caduto sulla strada di Damasco: la sua cifra, less but better [10], è già in linea con il tempo nuovo che si affaccia.
Per questo, la laurea che oggi viene conferita non è una celebrazione retrospettiva, ma una tappa di un percorso creativo dal quale ancora molto ci attendiamo.
[1] Giorgio Armani, Per amore, Rizzoli, Milano 2022.
[2] Roberto Gervaso, «È più facile vestire le donne», intervista a Giorgio Armani, Corriere della Sera, 20 agosto 1980
[3] André Chastel, La grande officina. Arte italiana 1460 -1500, Rizzoli, Milano 1965.
[4] Arjun Appadurai, La vita sociale del design, in Il futuro come fatto culturale, Cortina, Milano 2014.
[5] «Marie Claire»
[6] Roland Barthes, Il match Chanel Courrèges, in Il senso della moda, Einaudi, Torino 2006.
[7] Georg Simmel, Sulla moda, Mondadori, Milano 1996
[8] Roland Barthes, Tempo e ritmi dell’abbigliamento
[9] WWD.
[10] È stato il designer industriale Dieter Rams a coniarlo.