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Leggere per non perdere la capacità di conoscere

26 ottobre 2021

Leggere per non perdere la capacità di conoscere

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«Leggere ogni mattina, insieme alla consueta tazza di caffè, di tè o al cappuccino, un libro di letteratura, di poesia, di filosofia». Un’abitudine quotidiana fondamentale per arginare l’«impatto» della tecnologia sul processo cognitivo e «preservare la conoscenza» umana. È il suggerimento, semplice ma prezioso di Maryanne Wolf, docente della University of California di Los Angeles (UCLA), membro della Pontificia Accademia e attenta studiosa della lettura, contro il «sovraccarico di informazioni» che sta cambiando la nostra stessa «capacità di leggere». Con la drastica conseguenza di compromettere l’empatia, la comprensione, l’analisi critica. Il costo, insomma, che noi tutti stiamo pagando alla digitalizzazione in cambio di altri benefici ricevuti nel campo della ricerca scientifica, della conoscenza, della sanità. Una riflessione da tempo al centro delle sue attività di ricerca come testimoniano i due bestseller pubblicati dalla casa editrice Vita e Pensiero: “Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge” (2009) e “Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale” (2018).

La neuroscienziata cognitivista americana ha esposto le sue preoccupazioni sul futuro della conoscenza umana lunedì 25 ottobre nell’Aula Magna dell’Università Cattolica dove ha pronunciato la lecture “Information, Knowledge, Wisdom. Their Transmission and Transformation in the Digital Age”, terza conferenza del ciclo “Un secolo di futuro: l’Università tra le generazioni” promosso dall’Ateneo in occasione del Centenario. «Con la rivoluzione digitale, non sono cambiati solo i modi di trasmissione del sapere ma persino le modalità con le quali il sapere viene recepito», ha osservato il rettore dell’Università Cattolica Franco Anelli introducendo l’iniziativa. «Noi docenti non possiamo ignorare questo cambiamento, almeno per due ragioni. La prima riguarda la necessità di educare gli studenti a sviluppare un approccio critico davanti alle migliaia di informazioni che possono reperire perché alcune sono vere, altre false. La seconda ragione è legata al fatto che avere più informazioni non significa avere maggiore conoscenza».

Più informazioni non implicano, quindi, necessariamente più conoscenza, come ha ribadito Maryanne Wolf, secondo cui ciò che conta «non è tanto quello che si legge ma come si legge». Purtroppo, «il mezzo e lo scopo della nostra lettura stanno cambiando» a causa del digitale. Certo, «nessuno di noi ha un cervello destinato a saper leggere». Si tratta di qualcosa di nuovo anche per la nostra specie, per questo è stato elaborato un «nuovo circuito» adatto alla lettura. «Il cervello che legge» è la nostra piattaforma per raggiungere la «saggezza», quella che Wolf definisce anche «principio proustiano», perché consente di arrivare alla sapienza attraverso l’autore che si legge. Tuttavia, un cervello che elabora, che produce insights, ha bisogno di tempo, di un’alta qualità di attenzione.

 

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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Che cosa succede, invece, con le nuove tecnologie? Nella transizione da una cultura letteraria a una cultura digitale, l’uomo da pensante si sta trasformando in un soggetto che va alla ricerca. Siamo passati dal «Cogito, ergo sum» cartesiano al «Quero, ergo sum». Solo che, ha rimarcato Wolf, «nel mio mondo cercare significa mettere a disposizione informazioni che vengono da una piattaforma esterna. Questo ha fatto sì che quando leggiamo siamo simili a “skimmer”, saltiamo da un punto all’altro senza più essere in grado di comprendere il senso profondo di un contenuto e la bellezza del suo linguaggio».

Nessuno meglio di Italo Calvino ha saputo esprimere la preoccupazione per questa disattenzione nei confronti delle parole parlando di «un’epidemia pestilenziale» che ha colpito l’umanità nell’«uso della parola», una «peste del linguaggio» che si manifesta come perdita di forza conoscitiva.

Il rimedio? Wolf propone tre prospettive. La prima, per «il cervello che legge», è conservare. «Non sono contraria alla tecnologia» ma questa può essere un utile supporto «per insegnare la capacità di lettura profonda», ha avvertito. «Il digitale può servire a questo ed è fondamentale che gli insegnanti lo comprendano». Perché, citando Martha Nussbaum, sarebbe “catastrofico per una nazione avere persone tecnicamente competenti che hanno perso la capacità di pensare criticamente, di esaminare se stessi e di rispettare l'umanità e la diversità degli altri”. La seconda prospettiva è «insegnare come leggere». Con un obiettivo: l’«aspirazione alla verità». Infine, la terza e ultima prospettiva riguarda la «ricerca spirituale». Io «leggo per ampliare la comprensione di un universo con impronte divine. Lo scopo della lettura non è padroneggiare la conoscenza ma far sì che lo spirito divino padroneggi noi. La saggezza è dove amore e conoscenza si ricongiungono», ha precisato Wolf.

Forse per questo possiamo definire la «lettura un’esperienza strana», ha replicato il giornalista Alessandro Zaccuri, riprendendo alcuni passaggi dell’intervento della neuroscienziata, chiedendole «fino a che punto può aiutare a rispettare le opinioni e i sentimenti altrui». Secondo Maryanne Wolf una cosa è certa: bisogna resistere alla «difesa della verità» per combattere la «disinformazione». Il «nostro compito è insegnare, soprattutto ai bambini, la polisemia, il valore polisemico delle parole per accedere alla ricchezza del linguaggio». Solo in questo modo è possibile sfuggire alla trappola della «demagogia» e delle «fake news».

 

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