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Mare Aperto 2022, per la prima volta a bordo anche Unicatt

16 giugno 2022

Mare Aperto 2022, per la prima volta a bordo anche Unicatt

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Un mese a bordo di una nave della Marina Militare, immersi tra equipaggio, comando e staff di servizio. Uno scenario geopolitico fittizio, con un’Italia divisa in quattro zone, alcune ispirate ai principi della democrazia, altre mosse da intenti autoritari. Una missione: salvaguardare il diritto internazionale, contenendo le minacce degli invasori. Nessun contatto con la terraferma. È in questo contesto che si è svolta Mare Aperto 2022, la più grande esercitazione della Marina Militare, cui per la prima volta ha aderito anche l’Università Cattolica.

Dal 3 al 29 maggio, infatti, quattro studenti delle facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche e sociali, accompagnati dal tutor Nicolò Ferraris, hanno preso parte all’iniziativa in qualità di stagisti. Per quel lasso di tempo l’Unità Rifornitrice Etna si è trasformata nella loro abitazione, le altre trecento persone a bordo nei loro coinquilini. All’estraneità del contesto sulla nave si sommava quello circostante, perché le acque in cui si navigava non erano quelle dell’Italia abituale e reale. Non più venti regioni, unite sotto il segno della democrazia, ma quattro territori indipendenti e in lotta l’uno con l’altro: Enotria, paladina del diritto internazionale e corrispondente al centro Italia; Aretusa, stato autoritario equivalente alla Sicilia e Calabria; Shardana, territorio instabile nella Sardegna del Sud e minacciato dal nord della medesima regione, detta Cadossene.

«Si tratta di un’esercitazione onnicomprensiva e multidimensionale, che coinvolge la squadra navale in ogni suo aspetto – spiega Ferraris – due dei quattro attori presenti sulla scena erano attivi. Noi rappresentavamo lo stato di Enotria e il nostro compito era quello di contenere le minacce espansionistiche di Aretusa. Si creava in questo modo un ambiente verosimile, in cui tutte le azioni acquisivano significato in un concetto più grande. Nel concreto tutto questo si traduceva in manovre navali e false missioni umanitarie da parte avversaria. I lanci di missili balistici erano solo simulati: veniva simulato un lancio da parte di Aretusa (inventato, non fatto davvero), noi dovevamo rispondere dal punto di vista politico e legale. Al Comando spettava la parte militare».

 Erano due i ruoli incarnati, rispettivamente destinati alla Facoltà di Scienze politiche e sociali e a quella di Giurisprudenza: quello del “polad” e del “legad”. Se i primi erano chiamati ad analizzare il contesto politico attuale, ipotizzandone evoluzioni future e proponendo azioni di intervento, ai secondi spettava invece la comprensione di quello giuridico, valutando l’opportuno uso della forza all’interno di una manovra militare.


«Prima questo mondo esisteva solo sui libri, qui i ragazzi hanno avuto l’opportunità di interfacciarvisi direttamente – questo è, secondo Ferraris, il risvolto più proficuo sul versante professionale – ci si confronta, qui, con un mondo diverso dall’università: è necessaria una buona preparazione nelle materie internazionalistiche, dal diritto alle organizzazioni, alle relazioni, alla storia, per poter fare collegamenti con quanto accaduto in passato e proporre soluzioni efficaci nello scenario. I processi decisionali sono però molto diversi e accelerati rispetto a quelli della scuola: molte cose vengono fatte accadere senza possibilità di previsione, costringendo i ragazzi a ragionamenti repentini e immediati».

I posti resi disponibili dall’università erano quattro e ad occuparli sono stati Irene Angusti, Giada Galati, Gaetano Montagna e Francesco Montone, dopo aver superato una selezione basata su carriera accademica pregressa e conoscenza dell’inglese. Esercitazioni, briefing quotidiani, videochiamate con il capo della squadra navale, così come post politici e presentazioni power point erano infatti svolti interamente in questa lingua. Lo scenario contemplava anche altri Paesi Nato e sulla nave si trovavano militari di diverse nazionalità: bulgara, turca, marocchina, statunitense, francese…

«C’è un balance tra quello che l’esperienza insegna dal punto di vista professionale e da quello umano – riflette Gaetano – quello che si è fatto nello specifico è difficile che venga poi richiesto nella vita quotidiana, ma è molto formante per altri aspetti fondamentali quali il lavoro in team, la capacità di adattamento, il contatto con un modus operandi militare, che aiuta a capire la gerarchizzazione dei compiti in una catena di comando. E tutto questo è importante oggi negli ambienti lavorativi. Poi c’è l’arricchimento personale».

«Penso che la cosa più grande che possiamo aver imparato si misuri proprio su questo versante – prosegue Irene – imparare a vivere con altri che fino a poco prima erano sconosciuti ed entrare, nel corso della quotidianità delle giornate, nella loro intimità; adattarsi alla ristrettezza dello spazio; convivere con l’imprevedibilità… è qualcosa che per sempre porterò con me. “Laddove finisce la logica, inizia la marina”: questo era il loro motto. Ed era vero, perché non c’erano programmi che superassero i due giorni».


«Quando sono salita a bordo avevo le lacrime agli occhi, perché mi sentivo incapace di fare qualsiasi cosa – confida Giada – ma quando sono scesa avevo le lacrime agli occhi, perché da quella nave non me ne volevo andare. È stato come vivere in una bolla, in un vero e proprio microcosmo che si muove in mezzo al mare».

«Lì sopra eravamo tutti letteralmente sulla stessa barca: il disagio di uno diventa quello del gruppo, perché ogni cosa è condivisa. All’inizio credevo che trattandosi di un ambiente militare ci sarebbe stato un clima molto marziale, invece era accogliente e rilassato».

«Nonostante fossimo gli estranei della situazione – unici 5 civili su 300 persone a bordo – abbiamo avuto l’opportunità di parlare con chiunque, dal macchinista al comandante; di incontrare uomini di una forza armata che vivono in mezzo al nulla, eppure, con la loro presenza silenziosa, ci permettono di vivere una vita tranquilla. Abbiamo sempre nutrito una grande ammirazione per il mondo della Marina. È stata un’esperienza particolare – spiegano i ragazzi - perché sai che quando finirà quelle persone non faranno più parte della tua vita. Ma la rifaremmo altre mille volte».

Un articolo di

Fabio Pellaco e Ludovica Rossi

Scuola di giornalismo

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