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La partecipazione sia il nuovo nome del dialogo sociale
È questo il messaggio che giunge da un convegno all’Università Cattolica in un periodo in cui tornano ad essere tese le relazioni industriali
| Francesco Chiavarini
18 marzo 2022
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Ci si affeziona profondamente ad alcuni professori che non si è avuto la possibilità di conoscere. Tra questi professori, nella mia esperienza, c’è Marco Biagi che, ahimè, ho conosciuto solo tramite i suoi scritti accademici, le sue elaborazioni di politica del diritto del lavoro e il contatto con alcuni suoi allievi.
Biagi parlava di futuro. Sapeva il significato di transizione. Aveva elaborato una serie di teorie sulla transizione verso il futuro. Biagi aveva gli occhi puntati sull’organizzazione del lavoro e aveva compreso che da essa si parte per riformare il diritto del lavoro: cambiando l’organizzazione, debbono cambiare le norme che regolano il lavoro. Biagi aveva intuito che c’è una certa obsolescenza delle norme che non deriva dal fatto temporale, ma dalla velocità con cui le fabbriche cambiano pelle per adeguarsi alla competizione globale. Per ripetere un concetto elaborato da G. Giugni, è il diritto del lavoro che si adatta alla trasformazione tecnologica. Non è vero il contrario.
Biagi sa che si deve superare la dicotomia tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Propone di riflettere su una base comune di diritti, insistendo sulla scissione tra fattispecie e tutele. Rielabora l’idea di statuto dei lavori, coglie nella flessibilità sicura una traccia per modernizzare il diritto italiano, indica nel sostegno al reddito collegato alla formazione una via da seguire per avere un sistema che sia all’altezza di ciò che chiede l’Europa. Biagi rilegge le norme costituzionali, assegnando valore a ciò che potenzialmente si può fare, cioè al progetto, non più al vincolo con la tradizione. Con Biagi si tocca con mano come può venir meno quella mentalità ottusa che vede nelle norme costituzionali che riguardano il lavoro solo elementi negativi che sono chiamati a limitare o a perimetrare azioni riformatrici.
Biagi, perciò, si inserisce in quel filone di riformisti che possiamo definire equilibrati. Osserva la realtà, propone analisi, entra nel vivo delle riforme. Poi nel 2002, il 19 marzo, una bieca mano omicida gli toglie la vita, pensando di togliergli anche la parola. Ma così non è stato. “Le radici devono avere fiducia nei fiori”, si legge in questi giorni sulla scalinata del Museo di Arte Moderna di Roma: questo concetto traduce ciò che accadde con Biagi, con Tarantelli, con D’Antona e con altri che hanno subito violenza, minacce e morte in quei terribili anni in cui la parola era temuta per l’effetto che poteva avere sulla realtà.
In fondo, a pensarci bene, c’è anche una parabola nella scrittura che racconta di fenomeni simili, in cui il concetto chiave è “portare frutto” (Mt. 21, 33-46). Chi uccide i collaboratori fedeli e il figlio, rileggendo quella storia e quelle successive, già sa che non porterà frutto. Ed è quella la sua dannazione. Per sempre.
Un articolo di
docente di diritto del lavoro - facoltà di economia Università Cattolica