«La meraviglia è un'esperienza quasi religiosa nella quale ci si ferma, si contempla ma, soprattutto, si ascolta. Un tema che sembrerebbe lontano dalla giustizia ma che, invece, c'entra moltissimo perché la capacità di ascolto è fondamentale nella gestione dei conflitti e insieme all'incontro è una delle componenti essenziali della giustizia riparativa».
Con queste parole il professor Gabrio Forti, direttore dell’Alta Scuola sulla Giustizia penale "Federico Stella" dell'Università Cattolica, descrive il legame, solo apparentemente distante, tra i temi del diritto e il filo conduttore della prima edizione del Soul Festival, la meraviglia. Quello dell'ascolto e dell'incontro anche quando apparentemente sono inconciliabili se non addirittura impossibili. È stato questo il tema, domenica 17 marzo, di "Riparare il dolore: l'altro come scoperta" l’evento in cui Agnese Moro e Grazia Grena hanno raccontato la loro esperienza all'interno di un percorso di giustizia riparativa.
«Un cammino - ha spiegato la figlia del politico ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978 - che si contraddistingue da due elementi: lontananza e sorpresa. La prima è abbastanza ovvia, c'è chi le ha prese e chi le ha date. La sorpresa, però, è che al di là della distanza c'è qualcosa in cui entrambe le parti sono uguali, al netto delle diversità, che restano. Ed è l'incontro con l’irreparabile, qualcosa che non può essere sanato né dalla giustizia classica né da quella riparativa. Vale per entrambe le parti, chi ha subito il male e chi lo ha provocato. E resta. Mio padre è stato assassinato e questo non cambierà. Quello su cui puoi lavorare sono le scorie provocate dall’irreparabile. La giustizia classica neanche le sfiora, quella riparativa, invece, può intervenire».
«In questi anni - ha aggiunto Agnese Moro - mi sono dovuto confrontare con tre momenti. Il primo è l'immobilità. Un qualcosa che resta bloccato nella tua vita. Puoi andare avanti, fare le tue scelte, ma le maschere che sei costretto a portare ti obbligano a essere la vittima, che piange, che deve odiare. Il secondo è il silenzio perché trovare le parole per raccontare agli altri significa colpire in qualche modo chi ti è vicino e cerchi di proteggere. E allora resti zitta. L'ultimo è l'ingombro. Quando ci hanno restituito i vestiti di mio padre, erano insanguinati. Un sangue che invade anche tutto il passato del ‘prima’, i momenti belli trascorsi insieme. La ragazza di 25 anni che ero non potrà mai essere recuperata. È un peso che ti toglie il respiro. L’unica soluzione può essere l’incontro. È una sofferenza, certo. Ma se ti parlo, se ti rimprovero, sei una cosa viva, non sei più un fantasma. E allora riesci a guardare a oggi e, magari, anche al domani».