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L’umano sconcerto dell’Ultima Cena

28 marzo 2024

L’umano sconcerto dell’Ultima Cena

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Un’opera in tutti sensi «miracolosa», per l’iconografia innovativa, per la forza del messaggio che raffigura, per la continua meraviglia che suscita, a distanza di secoli, nonostante la sua «fragilità». È l’Ultima Cena, il grande dipinto murale che Leonardo da Vinci raffigurò tra il 1494 e il 1498 nel Refettorio di Santa Maria delle Grazie, quasi sicuramente su commissione di Ludovico il Moro. Ed è stato l’«umano sconcerto», quello provocato dall’annuncio di Cristo, che «spariglia le carte in tavola», e dalla sua straordinaria rappresentazione, il motore dell’appassionante dialogo che giovedì 14 marzo, nell’ambito del Festival di spiritualità Soul, ha guidato il numeroso pubblico raccolto nella sagrestia del Santuario domenicano alla scoperta del capolavoro vinciano.

Già, perché tornando all’«umano sconcerto», è proprio in virtù delle «reazioni dipinte sul carattere di ogni discepolo che Leonardo riesce a restituire la forza dirompente dell’atto del tradimento», ha spiegato la storica dell’arte e docente a contratto dell’Università Cattolica Emanuela Daffra, introducendo e moderando il dialogo tra lo storico dell’arte Pietro Marani e la scrittrice Melania Mazzucco.

«Non era insolito avere le rappresentazioni dell’Ultima Cena nei luoghi in cui monaci e frati consumavano i pasti. Eppure, Leonardo, e lo possiamo apprezzare nonostante la rovina dell’opera, dà una qualità di presenza viva a questo momento cruciale per la cristianità», ha aggiunto Draffa, che, prima di lasciare la parola ai due relatori, si è soffermata sul clima della Milano dell’epoca che il Moro – con la sua corte di letterati, scultori, pittori – ambiva a fare l’Atene d’Italia. 


L’inquadratura storica è fondamentale per comprendere appieno lo spirito del tempo e le origini del Cenacolo vinciano. Fu sicuramente il duca di Milano a commissionarne la pittura, ha confermato Marani: «Una lettera di Marchesino Stanga ci informa dei solleciti di Ludovico affinché Leonardo finisca l’opera». E, ha raccontato ancora lo storico dell’arte, a questo si aggiunge la questione del pagamento dei cinquanta scudi e delle lamentele del pittore per i pochi soldi ricevuti. Ma è soprattutto la “maraviglia”, per richiamare il tema complessivo del Festival, a contraddistinguere sin dal suo primo apparire l’opera di Leonardo. «Il 9 febbraio del 1498 sappiamo che il Cenacolo era finito. Lo dice Luca Pacioli nel suo “De divina proportione” in cui la definisce un’opera mirabile. Ma sono i visitatori, i cronisti, i viaggiatori che nei secoli sottolineano la continua meraviglia che suscita la pittura di Leonardo». Per esempio, Antonio Billi, che è uno dei primi biografi dell’artista, dice: “Fece in Milano un Cenacolo miracoloso”. E sono numerose le fonti che lo definiscono tale. «Andrea Appiani all’inizio dell’Ottocento, in un clima di neoclassicismo avanzato e quindi più laico di quello da cui è scaturita la commissione del Cenacolo, parla di un dipinto a olio sul muro fatto dal divino Leonardo».

Lodi sperticate e apprezzamenti per il pittore e per la sua tecnica che si avvicendano nel tempo fino ai giorni nostri. Basti pensare a Goethe, Stendhal fino a Henry James che in un passo di “Viaggio in Italia” scrive: “Fra tutti i dipinti italiani l’Ultima Cena di Leonardo a Milano è incontestabilmente quella che desta la più severa e profonda emozione. La sua straordinaria solennità è da ascriversi non v’è dubbio al fatto che questo è il primo dei grandi capolavori che s’incontrano venendo dal Nord”. E conclude: nonostante il suo “assoluto abbandono” la bellezza intrinseca dell’opera sta nel fatto che “pur avendo tanto perduto, essa ha tuttavia tanto mantenuto”.

D’altronde, ha fatto eco Melania Mazzucco, siamo stati abituati a guardare il Cenacolo come se fosse un’opera morente. Addirittura, D’Annunzio nel 1901 scrive l’ode “Per la morte di un capolavoro” che recita così: “O Poeti, Eroi, volontà meravigliose della giovine Terra, date il canto e il pianto, sopra la guerra, alla meraviglia che non rivivrà”. Un’idea funebre «che ci ha abitato finché non è iniziato il grande restauro». Ma anche un’idea di «fragilità», di «mortalità» che ha contribuito a farne un «mito» e ad ammirarla con una «venerazione», quasi religiosa.

La «sacralità» fa parte del Cenacolo fin dalle origini. «Leonardo stesso quando riceve la commissione acquista una Bibbia, e che nel 1495 figura nell’inventario dei suoi libri. Sente l’esigenza di rileggere le parole pronunciate da Cristo per poter meglio attuare la macchina visiva», ha ricordato Mazzucco. E in effetti quello che colpisce dell’opera è la raffigurazione dei dodici Apostoli: «Ognuno è rappresentato in base a ciò che si dice di lui nei Vangeli, ognuno ha un suo carattere e ognuno compie un’azione consona a questo carattere».

Un’iconografia che trova la sua massima espressione nella figura dell’Apostolo traditore. Perché, se nel Quattrocento è quasi sempre dipinto seduto da un’altra parte del tavolo, con l’aureola nera, il sacchetto dei denari tra le mani, «Leonardo non fa vedere nulla di tutto ciò». Semplicemente dipinge «sul volto di Giuda l’ombra che lo possiede». Un gesto artistico, secondo Mazzucco, dalla «potenza visiva assoluta» che fa capire cos’è veramente la pittura: un «pensare per immagini». «Giuda è l’ombra, è la notte, è il male che è già entrato dentro di lui». Un moto di reazioni psicologiche che generano «meraviglia», «umano sconcerto» e come, ha commentato Pietro Marani, rappresentano «il primo passo verso l’arte moderna».

Un articolo di

Katia Biondi

Katia Biondi

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