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Rischiare la pace. Il prezzo della solidarietà, il dovere della libertà

28 febbraio 2022

Rischiare la pace. Il prezzo della solidarietà, il dovere della libertà

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«Mentre Putin rischia freddamente la guerra, l’Occidente deve rischiare la pace». È il cammino che le otto università cattoliche della Strategic Alliance of Catholic Research Universities (Sacru) propongono alla comunità internazionale per sminare la strada militarizzata dall’intervento bellico della Russia in Ucraina. Un invito a tutti, a partire dalle università, a fare la propria parte per far prevalere, in mezzo al fragore delle bombe, le ragioni della pace.

Esperti di relazioni internazionali, di economia e di teologia degli atenei cattolici di quattro continenti (Catholic University of Australia, Boston College, Pontificia Università Cattolica del Cile, Pontificia Università Cattolica di Rio, Università Sophia di Tokyo, Università Cattolica del Portogallo, Università Cattolica del Sacro Cuore e Università Ramón Llull di Barcellona) entrano nelle ferite di una crisi apparentemente senza via d’uscita per cercare feritoie attraverso cui veder sorgere la speranza e indicare percorsi di riconciliazione.

«Rischiare la pace» afferma Mónica Días, Head of the PhD Programme dell’Institute for Political Studies della Universidade Católica Portuguesa, significa «affrontare Putin con determinazione, insistendo sulla diplomazia anche in mezzo alla guerra, ricordando chi soffre, anche oltre le linee dei nemici, e offrendo rifugio e speranza, anche se l’orizzonte di una costruzione della pace postbellica più sostenibile sembra lontano».

Va smontata soprattutto la macchina della propaganda dispiegata da Vladimir Putin. È vero che «la Russia ha sempre visto l’Ucraina come centrale nella sua sfera d’influenza e parte integrante della sua storia; in altre parole, una nazione collegata dal sangue» afferma Pablo Cabrera, professore del Center for International Studies della Pontificia Universidad Católica de Chile. Ma, secondo l’analista, che è stato anche ambasciatore cileno a Mosca dal 2000 al 2004 e ambasciatore concomitante a Kiev nel 2002, «insinuare un’invasione ora, citando ragioni (geo)politiche, strategiche ed economiche, è chiaramente insensato».

Per questo «serve una risposta chiara a chi espande il suo potere con una logica di paura e violenza», come afferma senza giri di parole Mónica Días. «Stanno arrivando mesi difficili e tutti i Paesi occidentali sono attesi da sfide che riguardano le forniture di gas e petrolio, così come le minacce alla nostra sicurezza, alla nostra economia o alla nostra comunicazione digitale. Questo è però il prezzo della solidarietà e il dovere della libertà, che non è dato, ma deve essere difeso ancora e ancora. Questo rischio potrebbe rivelarsi anche un’opportunità per unirsi intorno ai principi che hanno costruito l’Unione europea al suo inizio e per rinnovare l’impegno della Carta atlantica».

La posta in gioco è altissima, spiega Manuel Manonelles, docente di Relazioni Internazionali alla Blanquerna School for Communication and International Relations della Ramon Llull University di Barcellona. Siamo di fronte a «un vero e proprio “stress test” per mettere Washington alle corde e riportare l’Europa orientale al suo “ordine naturale” o, meglio, all’ordine che Mosca considera “naturale” nell’area. Il modo in cui si risolverà” la situazione in Ucraina, infatti, può avere gravi impatti su altri scenari, dai Balcani allo stretto di Taiwan». In Bosnia ed Erzegovina l’atteggiamento secessionista di Mirolad Dodick - il leader della Republika Srpska - sta minando il delicato equilibrio istituzionale del Paese, formalizzato dagli accordi di pace di Dayton del 1995. «Il grande “regalo” che Pechino sta ricevendo dalla crisi ucraina è un preziosissimo manuale su come l’amministrazione Biden e i suoi alleati rispondono alle dosi di pressione ed escalation che la Russia sta conducendo. Se, da un lato, gli Stati Uniti sanno che l’opzione militare nell’Europa dell’Est non ha senso, dall’altro sono pienamente consapevoli che non possono mostrare la minima debolezza, perché si aprirebbe la porta a un fronte ancora più delicato e grave per la stabilità globale».

Del rischio di gettare la Russia nelle mani della Cina parla Raul Caruso, docente di Economia della pace all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano. «Le sanzioni potrebbero rivelarsi di fatto inefficaci se un grande partner commerciale come la Cina prendesse il controllo degli affari dei Paesi occidentali con la Russia. Recentemente Pechino e Mosca hanno rafforzato i loro legami e la Repubblica popolare è un grande importatore di petrolio e gas russo. La Cina potrebbe aumentare le sue importazioni sostenendo così pesantemente il Cremlino. Bisogna assolutamente evitarlo». Anche se in queste ore l’attenzione è su Russia, Stati Uniti ed Europa, «è il momento di rinvigorire un ampio dialogo con la Cina», chiede il professor Caruso, che sollecita anche di evitare «ogni ulteriore ambiguità nel mercato globale delle armi» e di impegnarsi a finalizzare l’allargamento ai Balcani dell’Unione europea.

Che cosa possono fare la comunità internazionale e ciascuno di noi di fronte a un atto d’aggressione unilaterale come quello pianificato da Putin nei confronti di uno Stato sovrano?

La risposta di Tetsuo Morishita, professore di Diritto alla Sophia University di Tokyo, è affidata all’approccio degli studi sulla negoziazione. «Se si sceglie l’alternativa dell’uso della forza, è spesso a causa di una sua sopravvalutazione come Miglior Alternativa. Il mio Paese, il Giappone, ha fatto questo errore in passato e ha iniziato una guerra, scegliendo di interrompere i negoziati. Una delle ragioni di tale sopravvalutazione è che le persone non sono molto brave a valutare obiettivamente le dinamiche in cui sono coinvolte in prima persona. Se la comunità internazionale può comunicare obiettivamente agli interessati che l’opzione di usare la forza non porterà i benefici che si aspettano, allora è meno probabile che la decisione di usare la forza venga presa. Anche in questo senso, ognuno di noi, come membro di una comunità internazionale che cerca la pace, ha il potere di ridurre l’attrattiva dell’alternativa dell’uso della forza. L’importante è che ciascuno usi questo potere invece di pensare che sia un problema di qualcun altro».

Tra gli attori che possono esercitare un ruolo fondamentale per la soluzione della crisi ci sono le Chiese cristiane e quella cattolica, in particolare. «Il peacebuilding, non la guerra giusta, è il modo rispondere alla crisi ucraina» sostiene Joshua R. Snyder, Assistant Professor of the Practice & Director of Faith, Peace, & Justice Program del Boston College (Stati Uniti). «Mentre le azioni della Russia legittimano l’uso della forza secondo i criteri della tradizione della guerra giusta dello jus ad bellum, è cruciale che la comunità internazionale si impegni a costruire la pace al posto della violenza», in linea con il pensiero sociale cattolico degli ultimi cinquant’anni, dalla Pacem in terris di Giovanni XXII alla Fratelli tutti di Francesco. Un magistero che afferma in modo inequivocabile che «non ci può più essere una presunzione a favore della guerra come mezzo di mitigazione dei conflitti».

Secondo Manuel Manonelles, della Ramon Llull University di Barcellona, il contributo che la Chiesa può offrire alla riconciliazione è particolarmente rilevante nel contesto russo-ucraino e nella fede comune dei cristiani cattolici e ortodossi. Ma lo è anche a livello di diplomazia di secondo livello. «La particolare natura della Santa Sede e la sua relazione con il Patriarcato di Mosca sono un valore aggiunto e potrebbero diventare un canale supplementare attraverso cui questi sforzi diplomatici potrebbero essere condotti. A maggior ragione, il riconoscimento da parte dell’Ucraina del potenziale ruolo di mediatore di papa Francesco non dovrebbe essere sottovalutato, così come il fatto che l’amministrazione Biden dovrebbe essere a priori favorevole».

Anche perché «uno degli effetti collaterali di questa crisi è il crescente pericolo che l’architettura multilaterale che ha governato la sicurezza e la cooperazione politica nell’Europa del dopo guerra fredda diventi irrilevante e marginale, a partire dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) e dal Consiglio d’Europa». La Santa Sede potrebbe lavorare per rafforzare il loro ruolo, «considerando, se considerato appropriato e come parte di una strategia più ampia, una visita del Santo Padre a una o entrambe le istituzioni».

Un articolo di

Paolo Ferrari

Paolo Ferrari

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