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Carcere: il lavoro come antidoto
Una lezione aperta organizzata dal corso di laurea in Giurisprudenza, per riflettere sul valore di cultura e lavoro nel percorso di rieducazione del reo
| Sabrina Cliti
18 giugno 2022
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«Io penso che in pochissimi si ricorderebbero di disegnare il carcere se dovessero tracciare la mappa di una città, perché è un luogo che guardiamo sempre da lontano, lo consideriamo qualcosa di altro rispetto a noi». Con queste parole, Cosima Buccoliero, direttrice del carcere di Torino e Serena Uccello, giornalista del Sole 24 Ore, raccontano la realtà carceraria italiana nel loro nuovo libro. Mercoledì 15 giugno, le due autrici hanno presentato "Senza sbarre. Storia di un carcere aperto", edito da Einaudi, nell’ambito dell’evento “Il carcere e la città. Rileggere il rapporto tra carcere e comunità educante”, promosso dal Dipartimento di Pedagogia dell’Università Cattolica. L’incontro, moderato dalla professoressa Marisa Musaio, docente di Pedagogia del corso di laurea in Consulenza pedagogica per la disabilità e la marginalità, è stato introdotto dai saluti del preside della Facoltà di Scienze della formazione Domenico Simeone e del professor Luigi D’Alonzo, coordinatore del corso.
Cosima Buccoliero è stata a lungo vicedirettrice e poi direttrice del carcere di Milano Bollate, da molti riconosciuto come uno dei più avanzati penitenziari in Italia, per via del gran numero di progetti rieducativi che organizza a favore dei propri detenuti e per la sua “politica dell’apertura”. Il carcere di Bollate è l’unico a tenere le porte delle celle aperte dodici ore al giorno, pur essendo una struttura molto grande. Questa è stata la chiave della direzione di Buccoliero fin dall’inizio: accoglienza e umanità. Per lei è importante che le persone vengano a conoscenza di questo microcosmo brulicante di vitalità, per questo motivo ha sempre favorito l’interscambio con il “mondo fuori” dal carcere.
L’intento delle autrici nel libro è raccontare il carcere non solo come spazio fisico, ma come luogo delle relazioni e delle identità, in cui le persone, private della propria libertà, continuano a vivere ed evolvere anche dietro le sbarre. L’idea innovativa è quella di pensare al carcere non come di una struttura isolata dal consorzio civile ma come ad uno spazio che continua a dialogare con la realtà cittadina. In questo Bollate rappresenta un esempio virtuoso.
La città in qualche modo è entrata all’interno del penitenziario, ha quindi coinvolto il mondo esterno svuotandolo da pregiudizi e condizionamenti.
«Confrontarsi con l’esterno comporta, da parte del carcere stesso, la possibilità di condividere il potere che si esercita - dice Cosima Buccoliero - io ho sempre considerato l’esterno che entra in carcere come un modo per condividere un po’ del mio potere e della mia responsabilità. Non ho mai visto la comunità che entra come un disturbo, ma anzi come un modo per avere un’opinione diversa».
Serena Uccello sottolinea l’importanza della contaminazione tra le due realtà e utilizza il titolo del libro - Senza sbarre - per ribadire questo concetto: «L’assenza di sbarre è necessaria a un processo di conoscenza che elimina il pregiudizio. L’eliminazione del pregiudizio serve a modificare la percezione che abbiamo del carcere, che è il terreno su cui un certo tipo di propaganda può attecchire».
«Assenza di sbarre – prosegue - significa che anche il carcere è più controllato perché la società civile vi accede più facilmente. Certi fenomeni di violenze sono possibili poiché non c’è una società civile che se ne occupa, troppo spesso questi istituti sono abbandonati a loro stessi. Se invece chi lavora dentro ha la costante attenzione e anche la volontà di rendere conto di ciò che accade, non solo all’autorità superiore, ma anche alla società civile, certe cose probabilmente non accadrebbero».
Cosima Buccoliero evidenzia come il carcere debba essere dinamico, coinvolgendo idee e progetti esterni in opposizione al modello di penitenziario inteso solo come luogo in cui si scontano le pene. «Credo che sia fondamentale, perché altrimenti il carcere facilmente muore e anche le persone muoiono. Non fisicamente, ma proprio come testa, intelligenza, capacità di pensare».
Il mondo di fuori porta libertà, nuova energia e speranza in carcere: «I detenuti hanno molta paura di essere dimenticati dalle loro stesse famiglie. L’apice delle rivolte – ha ricordato Buccoliero - all’inizio della pandemia è stata la notizia del blocco dei colloqui e la paura che aumentasse la distanza con l’esterno, rendendo più difficile il contatto con i propri cari. Le persone che vengono dall’esterno testimoniano l’esistenza di qualcuno fuori, che si preoccupa di loro».
Un articolo di
Scuola di giornalismo