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Speranza e utopia, il ruolo degli intellettuali oggi

27 marzo 2025

Speranza e utopia, il ruolo degli intellettuali oggi

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«L’uomo cammina con i piedi in terra e la testa per aria» scriveva Lewis Mumford nella sua Storia dell’utopia «e la storia di ciò che è accaduto sulla terra – la storia delle città, degli eserciti e di tutte quelle cose che hanno avuto corpo e forma – è solo una metà della storia dell’uomo».  Così Giuseppe Lupo, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, ha aperto l’evento “Utopia e speranza nella cultura contemporanea”, una delle iniziative d’Ateneo sulla Speranza nell’Anno Giubilare, promossa nella fattispecie dalla Facoltà di Lettere e filosofia.

Oltre la terra, infatti, c’è il piano verticale verso il cielo, che coltiva il bisogno di utopia, non nel senso di sogno ma di ricostruzione di una società a misura degli esseri umani. Se guardiamo al Novecento, l’utopia «ha purtroppo preparato la strada a sanguinose dittature» – ha spiegato Lupo. Proprio come è successo con la biblica torre di Babele, innalzata faticosamente con l’intento di avviare una convivenza pacifica secondo quella «speranza de l’altezza» di cui parlava Dante, e poi trasformatasi in confusione di lingue e in dispersione di popoli. 

Eppure, Elio Vittorini, che all’indomani della Seconda Guerra mondiale sulla rivista Politecnico si era chiesto dove avesse sbagliato la cultura se non era stata in grado di fermare l’Olocausto, «sapeva che se intorno a una torre aveva preso avvio la deriva dell’incomprensibilità, soltanto da una torre (o da una città di torri) sarebbe potuto avvenire il riscatto». Al punto di dire che New York «ha significato per noi l’immagine istintiva di una babele portata vittoriosamente a termine e compiuta». 

Una nuova Pentecoste, dunque – ha detto Lupo – dove i popoli hanno ricominciato a dialogare. Occorre progettare per sopravvivere, ovvero lavorare, come avrebbe scritto Adriano Olivetti in uno dei capitoli di Città dell’uomo, affinché «la città degli uomini possa tendere verso la città di Dio». Molti intellettuali, e tra loro Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, don Lorenzo Milani, hanno cercato di edificare la “città degli uomini”. A questa «si può arrivare da più strade – ha aggiunto Lupo –, con gli strumenti della politica, con quelli della religione, con quelli dell’industria, perfino con quelli della cultura.

Il secolo scorso ci ha regalato questa speranza. Claudio Magris in Utopia e disincanto, definisce l’utopia come il «non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero essere». 
Un’operazione di cui lo scrittore è capace perché cammina lungo il fiume, risale la corrente, ripesca esistenze naufragate, ritrova relitti impigliati sulle rive e li imbarca su una precaria Arca di Noè di carta, come ha scritto Magris. E ancora: «Questo tentativo di salvezza è utopica e l’arca forse affonderà. Ma l’utopia dà senso alla vita, perché esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso».

 

Nel tempo presente, orfano di padri solidi e dispensatori di buoni consigli, è difficile mantenere dritta la barra e fare i conti con smarrimento e vuoto. Quando poi si è colpiti da eventi eclatanti come quello della pandemia da Covid 19, allora capita di ascoltare discorsi forieri di resilienza e fiducia che utilizzano metafore edilizie. È il caso del “tempo dei costruttori” citato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante la pandemia, del Tempo di edificare, titolo del libro di Giuseppe Antonio Borgese, e del Ponte, nome affidato da Piero Calamandrei a una rivista con la vocazione a costruire. Questi tre personaggi hanno in comune il rigore di una progettualità che convoca in prima linea la classe politica e la componente degli intellettuali, «cioè di chi deve saper leggere la contemporaneità ed elaborare proposte avendo alle spalle modelli di conoscenza a cui attingere» – ha spiegato Lupo.

Oggi più che mai è importante «ridiscutere un patto tra cultura alta e cronaca quotidiana, tra vita pensata e vita vissuta, tra gli aspetti politici e i più elementari bisogni umani» – ha proseguito Lupo, e provare a riprendere le fila dal punto in cui negli anni Ottanta si sono identificati leggerezza e disimpegno e le istituzioni culturali come editoria, università, mezzi di informazione, musei, biblioteche hanno ceduto il passo alla società liquida perdendo spessore e consistenza.
Il tutto aggravato oggi dall’ingerenza della rete, che ci resi per lo più spettatori acritici di un sistema dove si mescolano e si sovrappongono voci e contenuti più e meno autorevoli. 

«Con la caduta del Muro di Berlino è finito il tempo delle grandi narrazioni e con esso ogni forma di epica» secondo Lupo. La globalizzazione e «un mondo frastagliato e minimale, completamente asservito alle strutture di una liquida virtualità» sembrano aver scritto la prima pagina di un mondo nuovo post-novecentesco in cui la pandemia ha trovato il proprio habitat. «Forse, proprio a causa della cesura che è stato il Covid, un pezzo di Novecento è tornato a riaffiorare e a riportarci indietro di trent’anni: le Torri Gemelle, la crisi finanziaria dei primi anni Duemila, la guerra in Ucraina, il conflitto in Palestina, fenomeni di un tempo che credevamo appartenere al passato e che si sono ripresentati come rigurgito del vecchio secolo. Il Novecento che credevamo morto (e di cui ci siamo liberati probabilmente troppo in fretta) è tutt’altro che morto e chiede il conto». Lupo si è domandato dove sono finiti gli intellettuali dinanzi a questo scenario. 

Una domanda con cui anche Papa Francesco nel 2023 ha interrogato scrittori, artisti, cineasti, cantanti ponendo loro due richieste: «narrare pensando ai poveri che non avrebbero avuto la possibilità di fruire di tutta la bellezza dell’arte e procedere in qualsiasi forma di narrazione avendo osservato il mondo con due occhi». Perché con un occhio si guarda e con l’altro si sogna. 
Ciò che ancora non è diventato possibile lascia aperta una porta sulla speranza di un domani migliore. Scriveva Robert Musil ne L’uomo senza qualità che chi guarda alle realtà possibili «ha qualcosa di divino in sé, un fuoco, uno slancio, una volontà di costruire, non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito o un’invenzione poiché le sue idee non sono altro che realtà non ancora nate».

Proprio l’utopia della ricostruzione è stata condivisa, durante il dibattito, da Andrea Canova, preside della Facoltà di Lettere e filosofia promotrice dell’evento, accanto alla necessità di rivolgersi ai “poveri”, sia quelli afflitti da condizioni materiali non facili, sia quelli carenti di strumenti interpretativi della realtà. La domanda è sorta spontanea sul “cosa fare” per colmare questa lacuna. La risposta di Lupo è chiara: essere convincenti davanti agli studenti che si stanno formando; progettare sviluppando un pensiero, una prospettiva che scardini decenni di ripetitività e di assenza di obiettivi in termini di civiltà politica, e costruendo perché i sogni prendano corpo; trovare una nuova dimensione per l’Occidente che guarisca la malattia che lo colpisce al cuore, ovvero l’individualismo.

Il tema è politico e il confronto in aula ha messo in luce la necessità che i giovani riprendano a fare politica, superando gli ideologismi che hanno caratterizzato il Novecento, dopo che la generazione X ha in larga parte abbandonato il campo dedicandosi più che altro allo studio. 
Siamo incagliati, come la nave del dipinto “Il naufragio della speranza” di Caspar David Friedrich, meglio noto come “il mare di ghiaccio”, evocato dalla prorettrice Annamaria Fellegara. Ma possiamo scegliere, come ha specificato il preside Canova. Il libero arbitrio che contraddistingue l’essere umano ci permette di accogliere la speranza, scommessa sfida, che ci accompagni oltre i confini e i limiti percepiti oggi, verso l’utopia, luogo da costruire nel qui e ora per noi, cittadini di questo mondo.

«E il nuovo mondo qualcuno l’ha già scritto – ha concluso Lupo –. Bisogna solo cercarlo».
 

Un articolo di

Emanuela Gazzotti

Emanuela Gazzotti

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