La partecipazione è il nuovo nome del dialogo sociale. È questo il messaggio che giunge da un convegno all’Università Cattolica in un periodo in cui tornano ad essere tese le cosiddette relazioni industriali e si torna ad evocare addirittura la rivolta sociale.
L’incontro, svoltosi mercoledì 20 novembre, nella cripta dell’Aula Magna di largo Gemelli, ha riunito attorno allo stesso tavolo rappresentanti dei lavoratori, dell’impresa, del commercio, dell’artigianato e del cosiddetto terzo settore ed è stato introdotto dall’Arcivescovo di Milano e presidente dell’Istituto Toniolo, mons. Mario Delpini, dalla professoressa Antonella Occhino, preside della Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del professor Giovanni Marseguerra, direttore del Teaching and Learning Lab (TeLe Lab) dello stesso Ateneo.
Come ha osservato Antonella Occhino la parola “partecipazione”, «antica e modernissima», è presente nella Costituzione italiana già all’articolo 3, che è «l’executive summary», cioè il compendio del nostro vivere sociale.
Secondo la professoressa i padri e le madri costituenti, stabilendo in quell’articolo la pari dignità dei cittadini e la loro uguaglianza di fronte alla legge («senza distinzione di sesso, razza, lingua e religione»), impegnavano anche la Repubblica (nella seconda parte) a realizzare quella uguaglianza nei fatti, rimuovendo gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e, l'«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori - ecco il punto - all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
A parere di Antonella Occhino, come altri ordinamenti anche il nostro è orientato verso relazioni industriali di tipo partecipativo. E anche se tale modello non ha portato in Italia come invece è avvenuto per esempio in Germania a forme forti di coinvolgimento dei lavoratori nelle aziende, secondo la professoressa non andrebbero sottovalutate quelle modalità più leggere come le consultazioni tra le parti, che potrebbero anzi essere efficacemente estese anche oltre gli obblighi di legge, oggi limitati ai casi di gravi crisi aziendale.
D’altre parte, la partecipazione e il dialogo, ha fatto notare Giovanni Marseguerra, sono utili anche alla competitività, specie in un Paese, come il nostro, dove le imprese, per limiti strutturali, spendono in Ricerca e Sviluppo meno dei competitori di altre nazioni industrializzate e «fanno innovazione “in house”, cioè all’interno dell’azienda stessa attraverso l’ingegno dei titolari, dei soci e dei dipendenti». «Se in questi contesti non ci si parla, perché manca la fiducia reciproca, non è possibile nemmeno trovare soluzioni nuove che servono a rimanere nel mercato», ha spiegato il professore.
Favorire la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle aziende, dando piena attuazione all’articolo 46 della Costituzione è anche l’obiettivo della legge di iniziativa popolare che la Cisl ha depositato alla Camera raccogliendo molte più firme di quelle che sarebbero state necessarie e che «a gennaio potrebbe già diventare legge dello Stato», come ha auspicato Ugo Duci, Segretario Generale della Cisl Lombardia.
Nel corso del convegno sono stati illustrati diversi esempi di dialogo sociale promossi in Lombardia dalle organizzazioni del commercio, dell’industria e dell’artigianato: dai distretti del commercio sostenuti dalla Regione per la rigenerazione urbana di quartieri e comuni, alle iniziative di solidarietà a favore dei territori finanziate dalle Confindustrie provinciali fino alla collaborazione tra parrocchie, Caritas diocesane e cooperative sociali per offrire possibilità di impiego e appunto partecipazione sociale a persone emarginate, spesso bersagli di campagne d’odio, come gli ex detenuti e immigrati.
Tuttavia, se vogliamo che questo dialogo sociale tra soggetti diversi, porti ad un miglioramento delle condizioni di chi vi partecipa e non sia solo un anestetico per il conflitto, o un «eufemismo dietro il quale continuare a parlare di contrapposizione o lotta», come ha fatto notare mons. Mario Delpini, occorre intendersi sugli obiettivi che si perseguono.
Bisogna insomma definire che cosa sia il bene comune al quale si dice di voler tendere.
«Sono persuaso – ha suggerito Delpini – che il bene comune non sia il soddisfacimento dei propri bisogni, ma che debba essere identificato nella convinzione che la convivenza dei molti e dei diversi sia la condizione indispensabile per rendere possibile a ciascuno la realizzazione della propria personalità, del proprio desiderio di felicità».
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