Un artista è tale a prescindere dalle sue origini. Nel suo percorso c’è chiaramente anche il suo vissuto ma questa non può e non deve essere l’unica chiave di lettura. È questo il monito lanciato dai sei professionisti dell’industria con background migratorio nel corso del talk “Per un’Italia diversa” ospitato dal Museo delle Culture martedì 14 giugno per il ciclo Milano Città Mondo nell’ambito dei progetti New European Bauhaus e Migrations | Mediations, promossi dall’Università Cattolica. Una riflessione sui temi della rappresentazione e della discriminazione nel mondo della cultura e delle arti che ha visto salire sul palco dell’Auditorium del Mudec, presentati da Jada Bai, sei professionisti, originari di varie parti del mondo, per altrettanti speeches sul tema dell’accesso nell'ambiente della cultura e delle arti.
«L’idea alla base di questi progetti - ha detto introducendo l'incontro la professoressa Alice Cati del Dipartimento di Scienze della comunicazione e dello spettacolo - è che la bellezza ha molti volti e l’immaginazione ha bisogno di sguardi plurali come ha testimoniato l’evento in Triennale della scorsa settimana. Dobbiamo generare nuovi spazi di convivenza nel segno della bellezza della sostenibilità e dell'inclusione. La dimensione estetica come strumenti per trasmettere valori e favorire processi di inclusione sociale. Obiettivo di Migrations | Mediations è quello di creare un progetto di intervento che, mettendo in contatto artisti e policy-maker possa aprire tavoli di confronto».
«Stiamo assistendo - ha aggiunto in merito all'incontro - a una crescente richiesta di rappresentanza da parte di soggetti con background migratorio. Noi vogliamo mettere in discussione un sistema di discriminazione che impedisce loro l’accesso ai mestieri della creatività e della cultura. Le testimonianze di questa serata contribuiranno a scardinare questo meccanismo».
«Cosa sognano di diventare un bambino e una bambina? Essere immigrati consente loro di sognare? Sì…finché non si scontrano con la vita reale che sa essere molto amara – si interroga Sumaya Abdel Qader, scrittrice, sociologa e autrice serie tv – perché ben presto ci accorgiamo di essere trattati diversamente, discriminati. E capisci di non essere né di qua né di là. Ti senti definita dagli altri mentre tu non sai definirti…»
«Noi siamo come pittori che hanno più colori a disposizione, se impariamo a utilizzarli al meglio possiamo creare bellezza. Ma per farlo dobbiamo prendere consapevolezza di noi stessi e di quello che possiamo dare agli altri, come essere umani, a prescindere dalla provenienza».
Nalini Vidoolah Mootoosamy, drammaturga, parlando dell'ambito teatrale ha spiegato come «in Italia ci sia una carenza di una rappresentazione teatrale di alcune categorie sociali, tra cui quella dei migranti. E quella presente non è reale ma un'immagine stereotipata. Una visione molto limitata perché in Italia in realtà c’è una diversità ricca e crescente che si estende in molti campi culturali e artistici».
«E basta con la retorica - ha aggiunto - del gran lavoratore e dei buoni sentimenti. Abbiamo diritto di essere persone contraddittorie con pregi e difetti, come tutti. Il teatro è lontano dai giovani perché non parla della contemporaneità, dei nostri problemi».
«Spesso - ha denunciato Noura Tafeche, artista e ricercatrice indipendente - vengo coinvolta in festival e rassegne solo e soltanto per le mie origini, che, sia chiaro, non rinnego assolutamente. Tuttavia, ho cominciato a rifiutare questi inviti perché li trovo artisticamente limitanti. La nostra storia non è il solo oggetto del nostro percorso. Massimo rispetto per chi lo fa ma non può essere un aspetto vincolante. Dagli artisti di seconda generazione ci aspetta sempre che manifestino nella loro opera la propria biografia e oppressione. Il mio appello è non rassegnarsi alle tassonomie e che si avvii una sorta di processo di "normalizzazione". Perché essere presenti in questo contesto è già di per sé un atto politico».
«Perseverando e continuando a fare ciò che sappiamo fare meglio e che rappresentiamo riusciremo a cambiare l’immaginario delle persone» ha esortato Susanna Yu Bai, filmmaker e fotografa. Charity Dago è invece una manager, che dopo un passato da modella, ha deciso di passare dall'altra parte della barricata per fondare una propria agenzia, Wariboko, che si occupa di tutelare l'immagine di attori e artisti afro-discendenti: «Sono imprenditrice, donna e nera. In Italia. Sapete cosa significa questo? Il mio corpo sempre sessualizzato e la mia professionalità costantemente in discussione. Non è facile. Essere al tavolo delle contrattazioni in grandi multinazionali è una grande occasione perché a ogni colloquio di lavoro educo e formo il mio interlocutore. Il nostro sogno è veder tramontare la nostra mission. E di trasformarla, diventare cultori della diversità. Cambiare un certo tipo di narrativa. Aprire, incanalare, le nuove generazioni».
La serata si è conclusa nel segno dell'hip hop con il rapper Daniele Vitrone, in arte Diamante, che ha raccontato la sua esperienza come docente, nelle scuole elementari e medie, nell'ambito di laboratori rap. «È una cosa nuova, perché tendenzialmente non si insegna. Per questo è molto divertente. In ambito scolastico può essere molto utile, ha molte potenzialità. Nei lab si impara ad ascoltarsi. La canzone si scrive insieme. Se si contesta una scelta si deve proporre un’alternativa. Ogni lingua diversa è una grande ricchezza che viene ovviamente lodata. E alla fine il risultato rende tutti felici, lo sforzo se condiviso dà sempre grande soddisfazione».