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Cesare Cremonini e il racconto di un grande show

22 settembre 2021

Cesare Cremonini e il racconto di un grande show

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Un grande show è un gioco di squadra. L’artista ne è chiaramente il fulcro e il cuore ma per trasformare il suo concerto in uno spettacolo indimenticabile ha bisogno di un grande team di professionisti in grado di trasformare in realtà le sue idee e le sue emozioni e di indirizzarne lo slancio visionario e creativo.

Questo e molto altro è emerso lunedì 20 settembre durante l’incontro promosso dal master Almed in Eventainment Design con Paolo “Gep” Cucco, creative director di D-Wok e direttore del master e il cantautore Cesare Cremonini. Introdotti dalla professoressa Carla Bino, direttore scientifico del master, Gep e Cesare hanno raccontato nei dettagli il loro sodalizio artistico e professionale da cui è nato il Live Tour del 2018 che ha portato il musicista bolognese negli stadi per la prima volta nella sua carriera.

«Non è stato facile – ha spiegato - perché a differenza di quanto succede oggi, per gli artisti della mia generazione un tour negli stadi arriva grazie alla credibilità maturata negli anni, non con la quantità di pubblico raggiunto. Ora le cose sono cambiate, contano soprattutto i numeri, e per i giovani, anche grazie alle nuove piattaforme, è più semplice centrare questo obiettivo».

«In passato – ha raccontato Cremonini riguardo al suo incontro con “Gep” Cucco - mi è capitato di avere al mio fianco persone che avevano troppa voglia di accontentarmi. C’era più la voglia di lavorare con me che di fare una bella cosa con me. Riconosco che sono davvero molto esigente e questo a volte mi rende un po' rompiscatole ma con Gep mi sono trovato subito in sintonia. Mi piace sperimentare e amo i rischi che questo comporta se ciò vuol dire provare a migliorare la realtà. Più le sfide sono difficili, più mi entusiasmo e mi sento rappresentato. Gep ha colto questo coraggio, mi sono affidato a lui, e devo dire che il risultato ha superato le mie aspettative».

Un feeling confermato anche da “Gep” Cucco: «La prima cosa che ci siamo chiesti non è stato tanto fare qualcosa di innovativo ma trovare il modo di trasmettere, attraverso uno spettacolo, le emozioni che si provano durante l’ascolto della musica di Cesare».

Neon, plexiglas, blocchi di luce analogica. Lo show prevede una precisa regia, parlare di semplice scenografia appare improprio e riduttivo, lo spettacolo e la musica sono una cosa sola. «Mi piace che il palco comunichi, unire le canzoni alla parte visual è la cosa più difficile», ha spiegato Cremonini.

«Qualcuno potrebbe chiedersi – ha ammesso - perché fare tutto questo lavoro se poi alla fine il pubblico, concentrato sulla musica, non è in grado di percepirne le sfumature, i dettagli. Ma per me è fondamentale che lo show, concettualmente, sia coerente con il mio modo di scrivere canzoni».

«Nel progettarlo – ha aggiunto Cucco - è fondamentale avere il senso del ritmo e dello spazio. Non bisogna far andare tutto a pieni giri, bisogna imparare a dosare i vari momenti dell'evento».

«So che i miei spettacoli hanno bisogno di due-tre punti cardine che devono esserci- ha rilanciato Cremonini - ma per ogni album c’è qualcosa di nuovo che deve emergere. Si riesce a dare il massimo quando vai oltre, facendo qualcosa per te ma anche per il tuo settore. Il lavoro di squadra è fondamentale. La differenza la fa la competenza perché quando non hai molti soldi e risorse, come per noi in Italia, è quella che conta. Bisogna usare la fantasia e applicarla al lavoro di squadra, ognuno con le proprie competenze. Del resto ciò che abbiamo fatto non poteva che venire dall’immaginazione...».


Competenza, quasi un mantra, una parola che viene ripetuta continuamente perché alla fine a fare la differenza è proprio la qualità del team: «Nel mio tour – ha detto rispondendo alla domanda di Lisa, che ha seguito insieme a tantissimi altri studenti l’incontro in diretta sui social di Ateneo - al netto delle persone che lavorano per la singola tappa, sono impegnate circa un centinaio di persone tra fonici di palco, backliner, montatori, light designer…tutti professionisti straordinari. Lo spettacolo alla fine è una narrazione emotiva per 50mila persone, non può esserci un reparto dello show che non viene affrontato in maniera sinergica. È bellissimo vedere lavorare tutte queste persone, "spiarle" quando sono all'opera è un'esperienza che consiglio ai ragazzi che frequentano l'università e che vogliono lavorare in questo mondo».

E com’è trovarsi dall’altra parte della barricata? «Quando credi fortemente in un'idea trasmetti agli altri la tua energia. Se ti prendi cura dell’artista e del suo progetto – ha spiegato “Gep” Cucco - questi lo percepisce e la manifesta sul pubblico nel momento della sua esibizione. Un circolo virtuoso».

Inevitabile, poi, una riflessione sul Covid-19 e i mesi che hanno sconvolto le nostre vite: «Questo periodo determinerà chi siamo perché ci ha imposto delle scelte. Personalmente mi sono interrogato su quello che la pandemia mi stava chiedendo. Mi sono risposto che dovevo essere quel che sono: un artista. Mi sono messo al servizio di quello che verrà pubblicato in futuro. E non racconterò ciò che ci è accaduto ma il desiderio, la voglia, la speranza di rinascere. Ho reagito in maniera propositiva. Non ho messo le dita sul pianoforte senza che dentro di me ci fosse questa energia positiva».

«Mi manca molto il palco – ha poi detto rispondendo alla domanda di un gruppo di studenti riuniti in una compagnia teatrale - ma come momento liberatorio, non inteso come luogo in sé, in fondo io mi sentivo a Wembley anche quando nel 1994 suonavo di pomeriggio nelle discoteche. Quella del performer è una cosa che hai dentro, è difficile da spiegare e soprattutto da insegnare. Ci sono tante cose che puoi imparare, quella francamente è quasi impossibile».

Ma alla fine il senso di tutto è nel pubblico, inteso non come un’entità astratta da accontentare e da blandire ma come il punto finale di un percorso artistico. «Se cerchi solo di soddisfare la gente – ha spiegato “Gep” Cucco - non può funzionare. Per me è fondamentale la consapevolezza di aver fatto un bel lavoro».

«Se il pubblico è contento io sono felice – ha concluso Cremonini - se uno spettacolo non piace ho la percezione di un’occasione persa. Perché alla fine è la gente che chiude il cerchio. Quello che ho vissuto conta se le persone che vengono a vedermi lo percepiscono e lo riportano a casa, è questo che determina il senso di quello che hai fatto».

Un articolo di

Luca Aprea

Luca Aprea

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