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Cile '73, vergogna dell'America Latina

11 settembre 2023

Cile '73, vergogna dell'America Latina

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La storia ritorna, tende a ripetersi perché gli esseri umani, nonostante i secoli, rivivono le loro più grandi virtù e anche i loro più grandi difetti. Ammirano le piramidi d’Egitto e, quando tracciano una lunga linea retta sulla carta geografica, ripiegano sullo splendore classico di Tikal o Chichén Itzá, dei Maya, o sulla perfezione urbanistica di Tenochtitlán, degli Aztechi. Come non rimanere stupefatti dal colonnato del Bernini in Piazza San Pietro? Uno dice: umanità. Sul lato oscuro: Cesare è stupefatto quando vede il suo figlioccio tra i cospiratori; Goebbels mette la mano sulla pistola quando sente la parola "cultura"; i campi di concentramento e i gulag non possono essere giustificati a metà del XX secolo. C’è un lato della storia pieno di arte e poesia; ce n’è un altro, pieno di ignominia. Si pensa sempre che si vorrebbe essere dalla parte giusta, accanto agli eroi e ai santi. Primo Levi ci avverte che non è sempre così. Non tutto è bianco o nero. C’è una “zona grigia”: quella dove ci sono gli indifferenti, gli approfittatori, i dissimulatori, i silenziosi, i burocrati, quelli che dicono "non sono stato io, me l’hanno ordinato" e quella zona è ampia e vasta, ospita i vigliacchi che sanno di far parte di una macchina di morte e mentono a se stessi, dissimulano, chiudono un occhio e anche l’altro, quelli che non intervengono quando dovrebbero, quelli che obbediscono quando dovrebbero disobbedire. Quelli che dovrebbero esclamare, con Bartleby lo scrivano: "Preferisco non farlo".

Il tempo ci costringe a riflettere, a ricordare senza nostalgia. Tale riflessione inizia con quel Paese situato alla fine del mondo, che inizia nel deserto andino e finisce per toccare i feroci mari del sud, terrore dei marinai e spavento dei bucanieri, dove due mari si incontrano, dove i continenti finiscono e toccano le gelide acque dell’Antartide. Parliamo del Cile, una sottile striscia verticale che, guarda caso, ha la forma della pianta da cui prende il nome. Tutto è unico in Cile: il suo dolce modo di parlare lo spagnolo, la varietà del suo territorio, le sue ricche miniere d’oro, d’argento e di rame, la sua gente resistente e allegra, la sua potente letteratura. Il Cile si trova dall’altra parte delle Ande, se lo si guarda dall’Argentina. Ed è come se quella spina dorsale che sale verso il cielo creasse un altro mondo, un universo a parte. Infatti, insieme all’Uruguay e al Costa Rica, il Cile è stato per molti anni un laboratorio di democrazia, un’eccellenza nella turbolenta storia dell’America Latina. Dopo l’indipendenza dalla Spagna, non mancò un dittatore pittoresco, una sorta di requisito per essere latinoamericani: Don Diego Portales, che costrinse la popolazione a fare ginnastica alle 5 del mattino. Ma dopo quell’obbrobrio, la vita politica proseguì in una democrazia pacifica, con l’eterna discussione tra liberali e conservatori. Questo per dire che i cileni non avevano la cattiva abitudine di molti loro vicini latinoamericani: quella di svegliarsi ogni due giorni con un colpo di Stato militare.

Foto del Biblioteca del Congreso Nacional de Chile - (CC BY 3.0 CL)
Colpo di Stato dell'11 settembre 1973 in Cile. Bombardamento del Palazzo della Moneda - Foto del Biblioteca del Congreso Nacional de Chile (CC BY 3.0 CL)

Il Cile, tuttavia, si trovava nel bel mezzo di una situazione mondiale molto polarizzata. Negli anni Settanta, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avevano raggiunto l’apice del loro confronto imperiale. Ogni regione del mondo era una casella di una partita a scacchi, con i due imperi che si contendevano accuratamente ogni pedina, con le buone o con le cattive. In America Latina, dal 1959, una rivoluzione a Cuba aveva portato al potere Fidel Castro, un ex gesuita che dopo un paio d’anni si era associato all’Unione Sovietica, in parte a causa dell’ostilità degli Stati Uniti. Castro promosse e finanziò vari movimenti insurrezionali armati in diversi Paesi delle Americhe. Ma ciò che aveva funzionato a Cuba - una rivoluzione armata popolare - non ha funzionato in altri Paesi, a causa di evidenti differenze storiche e geografiche. La dimostrazione più cruenta del fallimento della strategia cubana fu la morte di Che Guevara in Bolivia nel 1967. La teoria del “foco rivoluzionario”, che parte da una parte del Paese e si diffonde a macchia d’olio, non ha preso fuoco in Paesi con una popolazione oppressa dalla povertà e dalla mancanza di istruzione. E dove ha preso fuoco, è stato schiacciato da una controinsurrezione addestrata nella guerra del Vietnam. Questa è l’epoca, in tutta l’America Latina, degli squadroni della morte, delle torture, delle sparizioni forzate e della scellerata eliminazione dell’opposizione. È il trionfo delle dittature militari, sostenute inequivocabilmente dagli Stati Uniti. Nemmeno la Chiesa cattolica è stata risparmiata da questa persecuzione, confondendo la Dottrina sociale nata dal Concilio Vaticano II con quello che veniva chiamato “comunismo bianco”. In quel periodo furono martirizzati parrocchiani, sacerdoti e suore.

In un simile contesto, come conseguenza del consueto processo democratico in Cile, nel 1970 vinse le elezioni il candidato marxista Salvador Allende, uno psichiatra piuttosto bonario il cui obiettivo dichiarato era quello di raggiungere il socialismo attraverso la democrazia. Gli occhi del mondo erano puntati su un esperimento così nuovo e attraente. In particolare, i partiti comunisti europei compresero che l’esperimento di Allende poteva essere una via pacifica al potere, a differenza dell’ortodossia rivoluzionaria che predicava insurrezioni violente per rovesciare la classe dirigente. Come spesso accade in questi incroci, il panorama cileno divenne sempre più oscuro con il passare del tempo. Allende godeva di un massiccio sostegno popolare e l’entusiasmo e la gioia con cui i cileni accolsero le sue riforme (la nazionalizzazione delle compagnie minerarie di rame - in mano alle multinazionali -, la riforma agraria, la riforma dell’istruzione) non permisero loro di vedere l’entità dei nemici che si erano creati. I settori giovanili si radicalizzarono e chiesero maggiore velocità ed estremismo nel passaggio al socialismo, creando grandi timori nella classe media.

Gli analisti americani credettero di vedere nel governo di Salvador Allende la creazione di una pericolosa enclave comunista in uno dei Paesi più importanti della regione. Anticipando il cosiddetto “Piano Condor” con cui sarebbe stata stroncata la guerriglia in Uruguay e in Argentina (con decine di migliaia di oppositori scomparsi, imprigionati, torturati e uccisi), applicarono questa soluzione all’esperimento cileno. I camionisti inscenarono uno sciopero stradale che fu come un campanello d’allarme per Allende. I principali giornali cileni furono messi al servizio dell’opposizione al socialismo. Una massiccia campagna di disinformazione creò un clima di terrore per la possibile egemonia del comunismo in Cile. C’è sempre un Caino, un Bruto, un Ford. Il ministro della Difesa di Allende, Augusto Pinochet, aveva la reputazione di essere apolitico e leale. Invece, l’11 settembre 1973 guidò il colpo di Stato che pose fine alla vita del Presidente e al suo esperimento socialista. Tra lo stupore del mondo, Pinochet guidò una macelleria politica, assassinando migliaia di suoi connazionali e mandandone altre migliaia in esilio. La profonda ignominia di questo evento storico è scritta con vergogna nella storia dell’America Latina e, ogni 11 settembre, viene ricordata per ammonire le generazioni: ci sarà sempre un nono girone dell’inferno per i traditori.

 

 


Nell'immagine in alto: Fotografie di persone scomparse dopo il colpo di stato dell'11 settembre 1973 in Cile. Mostra della Fondazione Salvador Allende in occasione del 30° anniversario della sua morte - Foto di Marjorie Apel (CC BY-SA 3.0)

Un articolo di

Dante Liano

Dante Liano

Docente di Lingua e letteratura spagnola - Università Cattolica

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