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Francesca Mannocchi, lo sguardo oltre il confine

09 novembre 2022

Francesca Mannocchi, lo sguardo oltre il confine

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Sono le storie minuscole a fare la grande Storia, quella con la S maiuscola. Lo studente, il professore, il soldato, il pensionato. Le loro testimonianze, le loro vite, sono capaci di descrivere conflitti, crisi e scenari in modo diretto, spesso spiazzante. Perché spesso una loro frase dice più di mille editoriali. Per farlo, però, è necessario incontrarli, dargli voce. Questo ha fatto Francesca Mannocchi, una delle più importanti croniste di guerra italiane, che lunedì 8 novembre (guarda l'incontro in versione integrale) ha aperto il nuovo ciclo di ASERIncontra per presentare il suo ultimo libro, Lo sguardo oltre il confine (ed. DeAgostini), un libro scritto e pensato per raccontare, attraverso le storie, gli scenari di guerra ai più giovani.   

«Un libro che si rivolge a ragazzi di 12-15 anni ma la cui lettura sarebbe molto utile anche a tanti adulti - ha detto introducendo l'incontro il professor Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell'Alta Scuola in Economia e relazioni internazionali - e che nelle storie che racconta ci ricorda un elemento troppo spesso sottovalutato, che gli ucraini, come gran parte dei popoli prima di essere colpiti dalla guerra, vivevano esattamente come noi».

Ed è proprio questo il primo tema affrontato da Francesca Mannocchi: «Non c'è una singola persona in difficoltà, tra quello che ho incontrato in tutti questi anni, che stia bene nella gabbia del vittimismo. Questo è importante nel racconto dei conflitti perché in quel contesto è facile definire le persone come vittime, meno semplice è raccontarle nella loro tenuta nella solida dignità che mantengono nonostante la guerra. Svetlana Aleksievič, una giornalista per me fondamentale perché mi ha permesso di acquisire un metodo, si descriveva come un "registratore di vite". C'è un modo per rendere giustizia alle persone che incontri, raccontare le loro vite prima della ferita a morte. Incontrare un trentenne a Kharkhiv è interessante, ma parlare con un sessantenne lo è di più. Perché la biografia del singolo è l'hard-disk per avere i dettagli di quello che dobbiamo raccontare. Questo è fondamentale perché spesso facciamo l'errore, ed è capitato anche a me, di avere il titolo del nostro pezzo pronto già dall'aereo. E vi assicuro che non mi è mai successo di tornare con la storia che avevo in mente. Le due domande fondamentali quando mi reco in un posto sono "Perché è successo?" e "Come andrà a finire?" e la risposta alla prima domanda non è mai quella che avevi in testa prima di partire».


Risposte che arrivano da quelle che Mannocchi chiama, appunto, "storie minuscole". Come quella di Fahim, professore universitario afghano che con il ritorno al potere dei talebani, da cui ha subìto pesanti intimidazioni, si ritrova da docente a sfollato, lontano dalla sua famiglia. «Mi ha insegnato che dell’Afghanistan abbiamo raccontato poco, male e comunque circoscritto alla zona di Kabul e delle altre grandi città. Pensavamo che l'intervento Usa fosse servito almeno a migliorare la condizione delle donne, a togliere il burqa. Ma Fahim, alla mia domanda su come ricordasse la guerra mi ha risposto così: "Ricordo che le donne dovevano portare il burqa e noi il vestito tradizionale. Poi sono arrivati gli americani e la divisa è diventata jeans e maglietta».

In Libia c'è la storia di Husein, traduttore, fixer, e adesso amico fraterno. «Una volta mi sono recata a casa sua dove siamo stati accolti da due ragazzi congolesi molto gentili. Mi ha raccontato che suo padre li aveva riscattati, ovvero comprati, e davanti alla mia indignazione mi ha guardato con la sufficienza con cui si guardano gli stranieri e mi ha detto "Secondo te stanno meglio adesso che hanno un letto, un tetto, una paga e possono comunicare con le loro famiglie o nel centro di detenzione in condizioni disumane?". Lì ho capito che della Libia non avevo capito niente».

E, poi, naturalmente, c'è l'ultimo fronte aperto, l'Ucraina. Lì c'è Irina, una soldatessa che si occupa dei cargo 200 e 300, quello più temuto da soldati e popolazione civile. Quello che trasporta morti e feriti. «Da sette mesi raccoglie i desiderata dei soldati, come e a chi comunicare la notizia della propria morte e la gestione della propria sepoltura. Ed è comprensibilmente molto provata. Credo di aver visto molte situazioni difficili ma l'omaggio ai caduti al passaggio del cargo è stato un momento molto toccante. Non si tratta di un'esaltazione del milite, ma di avere il rispetto per la memoria, dare un nome e un cognome a una persona. Anche perché per ogni soldato caduto ce ne sono almeno duecento impossibili da identificare».
 


E proprio il conflitto in Ucraina, come ha dimostrato la recente doppia manifestazione di Roma e Milano di qualche giorno fa, ha evidenziato una polarizzazione che ha scatenato un dibattito molto aspro. «Il problema - ammette Mannocchi - è la mia categoria, il giornalismo. Ci sono temi di cui non si può parlare davanti a milioni di telespettatori senza avere una conoscenza approfondita della materia. Non si può parlare di bomba sporca senza citare il Memorandum di Budapest. Non si possono sentire falsità come quella dei cadaveri di Bucha disposti dagli ucraini senza che chi afferma ciò non incorra in una sanzione. La televisione poi è un elettrodomestico deficitario perché chi ha bisogno di tempo per spiegare le proprie posizioni rischia di apparire in difficoltà. Personalmente mi sono imposta di non parlare con chi mente ma queste persone continuano a imperversare in prima serata ed è chiaro che se questa è l'informazione poi le persone ne sono inevitabilmente influenzate. Sulla pace poi c’è da dire che è molto ingenuo pensare che una guerra finisca con il cessate il fuoco. Il conflitto continua».

Una visione condivisa, ma con una sfumatura diversa, anche dal professor Parsi che ha ricordato come «questa sciatteria a lungo andare alimenta un circuito per cui tutto è uguale a tutto ed è importante, nei contesti dove è possibile farlo, intervenire per ristabilire quanto meno i fatti. Perché l'opinione, legittima, deve sempre basarsi sulla realtà».

E quando il pubblico, accorso in gran numero, sia in sala che in collegamento streaming, tra le tante domande poste alla giornalista, ha chiesto quanto ancora il cibo venga utilizzato come strumento di guerra nel mondo Francesca Mannocchi ha rivelato la sua prossima destinazione: «Questo ve lo racconto quando tornerò dalla Somalia. Parto tra dieci giorni».

Un articolo di

Luca Aprea

Luca Aprea

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