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Giovani e lavoro: il futuro del mondo della comunicazione

17 febbraio 2022

Giovani e lavoro: il futuro del mondo della comunicazione

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Le aziende della comunicazione devono essere “sexy” per attrarre i nativi digitali, garantendo professionalità e serenità, ma anche investendo risorse economiche ed etiche nella cultura aziendale. Da questa riflessione sono partite l’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo (ALMED) dell’Università Cattolica e Una-Aziende della Comunicazione Unite nel presentare, nel corso di un evento ospitato dall’Ateneo mercoledì 16 febbraio, alcune ricerche che sono state condotte negli ultimi anni all’interno di alcune aziende. Perché il settore è una realtà in crescita. E sapere come si lavora nelle aziende è il primo passo per capire che cosa è migliorabile.  

Ad aprire l’incontro, moderato da Marianna Ghirlanda, Ceo e presidente del Centro Studi Una, è stato Davide Baldi, Ceo e founder di DUDE (brand indipendente che opera con diverse società) che ha presentato i dati di un sondaggio basato su 172 aziende che hanno risposto alla survey negli ultimi due anni. La maggior parte delle aziende sono micro e piccole imprese che forniscono più di un servizio. Il 61,5% delle società è nato nel nuovo millennio e con l’avvento dell’era digitale, mentre durante la pandemia si conta solo il 2,8% di nuove aziende. L’analisi si concentra sull’età e il genere della forza lavoro. I giovani coprono uno spazio molto importante e l’occupazione di genere è di sostanziale parità, anche se i dati mostrano che per le donne è più difficile riuscire a rimanere attive in questo settore con il passare del tempo.

La professoressa Nicoletta Vittadini, direttrice del Master in Digital Communications Specialist, ha invece ripreso il tema dell’occupazione di genere, dove si nota un miglioramento nella progressione di carriera per le donne, anche se non riguarda le posizioni dirigenziali. Tuttavia, la percentuale si alza nelle realtà più piccole o caratterizzate da un’imprenditorialità al femminile.

Con la pandemia è stato riorganizzato il lavoro all’interno delle aziende. C’è stata una grossa richiesta da parte dei dipendenti maschi di un orario di lavoro più flessibile, differentemente dagli anni precedenti, in cui il numero più consistente era formato da lavoratrici. Anche per i congedi parentali ci sono stati dei mutamenti, con un timido avanzare degli uomini (20,37%).

Fondamentali sono i programmi di diversità e inclusione e la capacità ad attrarre nuovi talenti. «Ci vuole talento per attirare talento». Inizia così l’intervento di Antonio Fazzari, general manager e chief operating officer di Fater Italia, società che detiene marchi come Pampers e Lines. Le sue parole aprono una riflessione sul ruolo che le aziende devono avere nell’investire sui giovani talenti, che possono fornire una visione diversa del mercato della comunicazione. Non a caso, Fazzari preferisce parlare di persone e di talenti, piuttosto che di risorse umane. “People first” è infatti il progetto da lui supportato che si basa sull’idea di costruire un’azienda fondata sulle persone e per le persone, dai lavoratori fino ai clienti finali. Il talento che attrae il talento deve partire dalla leadership delle aziende, cui spetta la missione di credere nei giovani, spesso intimoriti dal mondo lavorativo. «I giovani sono un valore aggiunto per le aziende e per il mercato», sottolinea Fazzari che nel rassicurare gli studenti evidenzia come molte aziende si stiano strutturando per migliorare la “talent attraction” e la permanenza nel luogo di lavoro.

Una missione ancora lontana dal suo compimento, ma che dà comunque segnali positivi. Lo dice Beniamino Bedusa, presidente di Great Place to Work Italia, società che mira al miglioramento degli ambienti di lavoro. I dati riportati da Bedusa fanno emergere la diretta correlazione tra il grado di felicità delle persone sul posto di lavoro e l’aumento del fatturato delle aziende. «Lavorare per il benessere della comunità aziendale – sostiene Bedusa – non è solo una mission etica, ma anche economica».

 

 

Photo by Annie Spratt on Unsplash

Un articolo di

Lavinia Beni e Niccolò Longo

Scuola di Giornalismo

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