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Identità, creatività e nuovi luoghi per andare oltre l'incertezza del presente

19 dicembre 2021

Identità, creatività e nuovi luoghi per andare oltre l'incertezza del presente

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Il 7 dicembre 1921 iniziava la nostra storia.

Oggi varchiamo una soglia: con l’inizio di questo anno accademico comincia il secondo secolo di vita di questo Ateneo. L’anno che si è chiuso ha completato un ciclo ed è stato un tempo di rievocazione e di omaggio a coloro ai quali siamo debitori del nostro presente. Ringrazio di cuore i tanti che si sono prodigati per organizzare le numerose iniziative che hanno arricchito questo anniversario e che ci hanno fatto sentire riuniti come comunità, pur nei momenti di forzata separazione. Un pensiero speciale riservo a chi ci ha manifestato affetto e vicinanza: per primo al Santo Padre Francesco, al quale rivolgo un caloroso e deferente ringraziamento per le profonde riflessioni che ci ha voluto donare nel suo video messaggio. Un filo ha attraversato i mesi appena trascorsi e oggi si annoda in un legame di forte significato. Il centesimo anno accademico è stato aperto da una cerimonia non usuale. In questa Aula Magna, allora deserta, sono confluite le immagini, i volti e le voci di tutte le sedi dell’Ateneo e soprattutto è stato con noi dal Quirinale il Presidente della Repubblica; custodiamo ancora la memoria delle sue parole di apprezzamento e incoraggiamento.

Oggi torniamo a incontrarci e ci onora della sua presenza la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Non si può dimenticare che, se questo evento è possibile, lo si deve agli sforzi dell’Unione Europea e delle Autorità italiane e al senso di responsabilità di tutti i cittadini nel combattere e contenere la pandemia che ci ha colpiti. Grazie, illustre Presidente, per quanto ha fatto nella Sua alta responsabilità e per aver accolto il nostro invito ad accompagnarci in questo passo emozionante per la nostra comunità accademica. Con la Sua presenza si completa il percorso ideale iniziato con la cerimonia inaugurale dello scorso anno accademico e si ricongiungono due elementi costitutivi dell’identità di questa università: la sua dimensione nazionale e quella europea.

2. L’università. Europea per vocazione

Quest’ultima, in particolare, non è un connotato accessorio, ma un predicato essenziale dell’Ateneo. In primo luogo perché è un’università e le università sono in sé portatrici di una cultura intrinsecamente europea. L’Unione stessa non sarebbe stata concepibile senza quella comune matrice di pensiero che le università hanno contribuito a creare e diffondere; così come le nostre università di oggi non sono pensabili se non all’interno del sistema europeo dell’alta formazione e della ricerca. In secondo luogo questa università è ancor più profondamente europea proprio perché cattolica.

Non alludo soltanto al decisivo ruolo della cristianità nella conservazione delle basi della cultura occidentale. Siamo in un luogo che fu un monastero benedettino e proprio qui Padre Gemelli nel 1932 diceva: «A noi, da chi non conosce la storia, può essere osservato che tradizione non abbiamo e che nel mondo accademico siamo dei nuovi venuti, perché nati nel 1921. Ma … la nostra tradizione è millenaria. Essa è la stessa tradizione che ha fatto costruire questi magnifici chiostri bramanteschi». Un contributo di elaborazione, non semplice custodia, decisivo per l’edificazione di uno spirito del continente: lo ha messo in luce Rémi Brague nella sua più celebre opera (Europe, la voie romaine, 1992), sottolineando la capacità della cultura romana di porsi in una posizione di “secondarietà culturale”, assorbendo e rigenerando tanto quella greca quanto quella giudaico-cristiana e farne «la forma stessa del rapporto europeo con l’identità culturale». Quella “permeabilità” culturale che caratterizza la comune storia dei popoli europei non significa cedimento, ma capacità di relazione: «L’Europa emerge nel prolungato tentativo di vedersi attraverso gli occhi dell’altro».

3. L’Università Cattolica: l’identità premessa per il confronto.

Se una delle questioni cruciali del mondo globalizzato è la capacità di dialogo, questa poggia su una premessa ineludibile: la chiara conoscenza di sé. La nostra università è stata costantemente sollecitata a riflettere su se stessa, sulla fedeltà al progetto culturale che le ha dato origine e regione. Al tempo della fondazione la domanda era radicale: se una università che si qualificasse “cattolica” avesse spazio in un contesto scientifico, culturale e ideologico che sembrava negarglielo. La risposta stava nel mandato che fu attribuito all’Ateneo con lapidaria sintesi: «La scienza per la scienza, ordinata alla vita»; ossia, spiegava Padre Gemelli, «La scienza … ricercata senza alcuna preoccupazione, senza alcun pregiudizio, la scienza amata e servita come tale”; e insieme, l’attenzione all’umano: «la ricerca scientifica, per non smarrire la via, deve essere ordinata alla vita …ossia al bene, alle anime, al progresso, all’incivilimento, alla grandezza delle Nazioni». Congiunta alla ricerca scientifica, l’educazione: il professore universitario deve essere avanti tutto «un educatore, un formatore di coscienze, un ispiratore di anime» e per questo, osservava sempre Gemelli, «lo statuto del nostro ateneo, forse solo fra i vari statuti delle università …, pone fra gli scopi della università nostra che essa deve non solo istruire i giovani ma anche educarli».

Si tratta di un’ispirazione ancora vitale, come dimostra il Global Compact on Education che - promosso con passione dal Santo Padre - stimola con nuova freschezza le radici antiche e originali di questa università, nella consapevolezza che l’educazione è una delle chiavi per confrontarsi con le urgenze della contemporaneità. Alla proposta educativa della Cattolica hanno risposto in tanti, a partire dai primi studenti, che non mi stanco di annoverare tra i fondatori di questo Ateneo, e poi dai sempre più numerosi giovani che ci hanno dato fiducia e che hanno permesso all’Ateneo di contribuire allo sviluppo del Paese con i suoi oltre 300.000 laureati. Molti di loro hanno assunto responsabilità del più alto livello, già nell’Assemblea Costituente e in seguito in ruoli di vertice politico, istituzionale, economico e culturale; ma è ancor più importante e meritevole di menzione l’apporto di conoscenza che tutti i nostri laureati, indipendentemente dalle posizioni raggiunte e dalle professioni esercitate, hanno capillarmente diffuso nella società, essendo operatori e testimoni di una cultura e di un’ispirazione morale ben precise. Della loro opera quotidiana si alimenta la reputazione, e l’orgoglio, dell’Ateneo.

Se la domanda delle origini riguardava la legittimità stessa di un ateneo cattolico, più avanti negli anni si è posto l’interrogativo dell’attualità di quel progetto culturale in un mondo secolarizzato, attraversato dai movimenti della contestazione giovanile, e in una Chiesa chiamata dal Concilio a un profondo rinnovamento. La minaccia, secondo alcuni, era quella di regredire a ghetto intellettuale. E di nuovo la risposta fu data: partecipando senza timori al dibattito sociale per riaffermare – aggiornandone la declinazione – i valori dell’Università Cattolica, per primi la serietà dell’azione educativa e l’impegno nella formazione della persona.

E oggi? Oggi ci sentiamo provocati dalle nuove domande poste da un’epoca di incertezza.

Il discorso inaugurale

Franco Anelli

Franco Anelli

Rettore - Università Cattolica del Sacro Cuore

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4. Oltre l’incertezza del presente

Gli ultimi decenni sono stati dominati dal topos della complessità; Edgar Morin – che ha da poco compiuto i cento anni – ce lo ha ben spiegato: la complessità mette in discussione la logica deduttiva, che si esercita su ciò che è isolabile e parcellizzato e sollecita un ritorno alla radice etimologica dell’intel-ligere e del cum-prehendere, attraverso un metodo di pensiero la cui essenza è collegare: ricostruire le connessioni tra gli elementi e il contesto, l’uno e il molteplice, il locale e il globale (o meglio: planetario). Però, almeno nella percezione diffusa, nella volgarizzazione, quella della complessità è a lungo apparsa come una “sfida” che era possibile raccogliere e affrontare semplicemente affinando gli strumenti noti. Ora invece il panorama sembra avvolto da una nebbia epistemica più fitta, che genera una consapevolezza dei limiti di quella capacità di lettura del reale - della realtà naturale come di quella sociale - che nella stagione del trionfante progresso tecnologico aveva alimentato un fiducioso ottimismo; l’esperienza umana si confronta con un inquietante disordine strutturale: «un problema del mondo reale non è mai separato con assoluta certezza dalle altre cose che ci sono in quel mondo» – ha scritto Douglas Hofstadter – «e non vi è modo di prevedere quali e quante altre cose potrebbero essere coinvolte in seguito a qualche piccola variazione rispetto a quello che ci si aspetta».

Fenomeni come il cambiamento climatico o la pandemia (ma lo stesso si potrebbe dire delle improvvise crisi economiche e geopolitiche che hanno scosso la stabilità del mondo), ci si pongono innanzi come problemi la cui soluzione non è semplicemente questione di tempo, mentre nell’era della signoria della tecnica sembrava che ci fosse solo richiesto di attendere, perché alla fine ogni interrogativo avrebbe trovato risposta, e ogni obiettivo, dalla conquista della luna alla sconfitta delle malattie, sarebbe stato infallibilmente conseguito.

Un contesto conoscitivo ineffabile e sfuggente provoca, quasi inevitabilmente, anche un allentamento dei legami che tengono unite le società. Scosse da minacce inattese, le comunità non si ritrovano attorno a principi e obiettivi aggreganti, ma sbandano e si frammentano. Ultimamente si pone un problema di identità, che «implica una cerchia stabile di riconoscimenti nella durata». In un simile contesto l’università deve riscoprire il suo ruolo unificante, porsi come comunità di tanti che «convergono ‘verso uno’, un luogo, un tempo, uno spirito», come ci ha appena detto il Santo Padre.

5. Il valore delle istituzioni

Per affrontare l’impegno le università devono anzitutto concepirsi come istituzioni. Può apparire ozioso ribadirlo, ma solo la saldezza e affidabilità delle istituzioni può ridurre il grado di insicurezza e imprevedibilità che pervade le nostre democrazie, offrendo punti di riferimento. La stessa Europa unita ha mostrato capacità di dare stimolo e speranza nella crisi generata dalla pandemia nel momento in cui ha riaffermato un valore fondamentale, quello della solidarietà, intesa non come azione di soccorso, ma come riconoscimento del carattere comune di una minaccia e dunque della necessità di affrontarla in una prospettiva unitaria, gli uni al fianco degli altri. Le università possono allora candidarsi ad essere uno dei punti di saldatura tra sviluppo delle conoscenze e finalità pubbliche, operando in via diretta, ossia producendo nuova conoscenza sottratta alla “privatizzazione” del sapere e delle sue applicazioni, e indiretta, per mezzo di processi di formazione che contribuiscano a creare una società più colta, e non soltanto più addestrata, diffondendo la conoscenza come valore sociale e politico.

Non vi è in questo nulla di nuovo, anzi si richiede di recuperare – contro le derive verso lo specialismo a tratti apparse inevitabili – la fondamentale dimensione di luogo di coltivazione di un sapere integrale, e dunque di un’aspirazione alla saggezza e alla sapienza, a una conoscenza orientata e resa viva dal senso del sapere. È ancora Edgar Morin a delineare il campo d’azione, quando pone il problema di uscire da quella condizione antropologica che ci vede ancora immaturi e impreparati di fronte a quella che egli chiama, con una formula di straordinaria efficacia, l’“Età del ferro planetaria”: ebbene, dice Morin, «Questo compito rende necessaria una riforma del nostro modo di conoscere, una riforma del nostro modo di pensare, una riforma dell’insegnamento: tre riforme interdipendenti».

6. L’Università come istituzione creativa

Sulla base di queste considerazioni, penso che un’università come la nostra debba proporsi di operare come un’istituzione creativa. In una stagione di disorientamento, le università appaiono tra le poche realtà la cui funzione è rimasta pressoché intatta e pedagogicamente necessaria alla crescita delle generazioni. Per conservare quel ruolo occorre ritornare all’antica missione dell’universitas, che già le aveva assegnato John Henry Newman: quello di dar forma a un “intelletto educato”. Però, rispetto ai tempi di Newman, il quadro di riferimento non è più coerente; la stessa idea di progresso non è più univoca: oggi occorre affrontare con creatività e rinnovata capacità di sintesi i temi dell’ambiente, della salute, della dialettica con una tecnologia che appare sovrastante e sfuggente, e della necessità di una sua ritrovata “umanizzazione”. I vecchi strumenti non sembrano bastare, occorre un nuovo sguardo, un “nuovo umanesimo” ci dice il Santo Padre, e anche tante voci del pensiero laico.

7. Ciò che è stato fatto

Permettetemi ora di dare brevemente conto di alcune delle attività svolte nell’ultimo anno, nel quale il nostro Ateneo ha tenuto acceso il fuoco della propria attività formativa e di studio. Indico qualche dato senza dilungarmi: abbiamo affidato la sintesi a un Bilancio di Missione che abbraccia i cento anni dell’esperienza dell’Università Cattolica. Un documento originale nella sua concezione, che spero troverete interessante. Le nostre 12 Facoltà hanno attivato 104 corsi di laurea e gli iscritti ai programmi formativi, compresi quelli post lauream, sono oltre 44.000. Siamo la prima università italiana, secondo i ranking internazionali, per presenza di aziende nei nostri campus e siamo costantemente ai primi posti nella employers reputation. In sei anni gli studenti internazionali sono cresciuti del 59% e i double degree attivati sono 24. Nell’anno trascorso abbiamo raccolto finanziamenti alla ricerca per oltre 33 milioni di euro e sostenuto la ricerca con fondi propri per oltre 4 milioni di euro. Intenso, infine l’impegno nel sostegno agli studenti: l’Università cattolica eroga complessivamente 25 milioni di euro ogni anno a beneficio di quasi 10.000 studenti, supplendo anche all’insufficienza delle risorse pubbliche.

8. Le fonti di sostentamento. La libertà imperfetta di un Ateneo non statale

Tutto questo, e molto altro, si fa impiegando risorse dell’Ateneo. Le fonti di quelle risorse meritano un cenno, per rappresentare un’importante evoluzione. L’Università Cattolica è nata grazie a generosi benefattori ed è stata in principio sostenuta soprattutto dalle offerte dei cattolici italiani: una partecipazione corale ai bisogni di un ateneo che sentivano loro, parte della Chiesa. Alla fine degli anni ’60 le risorse raccolte dalla Giornata per l’Università Cattolica, pensata e sviluppata dall’infaticabile determinazione di Armida Barelli, raggiungevano un importo pari alla metà del costo delle retribuzioni dei docenti; il contributo pubblico copriva la restante metà. Oggi l’Ateneo è sorretto dai contributi degli studenti. È un dato importante, perché significa che l’Università vive grazie alla propria capacità di elaborare un’offerta formativa e offrire servizi che meritano un investimento da parte degli studenti e delle loro famiglie.

Ciò ha un duplice significato: costituisce un decisivo fattore di libertà dell’Ateneo, che ha conquistato una – pur faticosa – autonomia dal punto di vista economico; e attesta che questa università appartiene nel senso più pieno a coloro che in essa insegnano e lavorano e agli studenti che la frequentano.

È però una libertà imperfetta, perché la Cattolica si colloca in un ambito di tutela costituzionale – che rilascia titoli di studio aventi valore legale ed è assoggettata al regime pubblico di accreditamento e verifica (e a questo riguardo mi rallegro per la valutazione “pienamente soddisfacente” conseguita all’esito della recente verifica dell’Anvur) – soffre a causa di una sua natura “privata”, di plurime restrizione e, in particolare, viene esclusa da bandi competitivi che dovrebbero avere la qualità della ricerca e della didattica quale unico criterio di selezione. Una simile situazione, che non è mai esistita o è stata superata nella maggior parte dei Paesi europei, è frutto dell’appiattimento su schematismi giuridici ormai inattuali.

Quel che è più grave è che anche nei provvedimenti di attuazione del PNRR si stanno riproponendo i medesimi problemi, che davvero si spera vengano, in questa che dovrebbe essere una stagione di rinnovamento, apertura e stimolo alla ricerca, finalmente superati.

 

9. Nuovi luoghi per il nostro futuro

L’Università Cattolica va avanti e cresce anche nei momenti difficili, con prudente realismo ma senza farsi intimorire. Nel corso dell’anno 2020/2021 abbiamo attuato coraggiosi investimenti e altri ne abbiamo programmati. Sono stati aperti due nuovi campus: quello di Brescia nella sede di Mompiano e quello di Cremona nei chiostri del monastero di Santa Monica, inaugurato nello scorso mese di maggio alla presenza del Presidente della Repubblica. Importanti investimenti sono previsti presso la sede di Roma, per sviluppare l’accoglienza degli studenti nei collegi universitari e per dotare gli istituti di ricerca e di cura di ulteriori e sempre più funzionali spazi e strumenti. Ma questo appartiene in certo modo all’ordinario. In questa solenne occasione sono orgoglioso di poter riferire di un passo importante per la definizione del volto dell’Ateneo del prossimo secolo. Nelle scorse settimane è stato sottoscritto il verbale di consegna dell’ala Santa Valeria della Caserma Garibaldi di piazza Sant’Ambrogio ed è stata perfezionata la convenzione con il Comune di Milano e l’Agenzia del demanio che consentirà l’avvio dei lavori di ristrutturazione.

Ne ho parlato ogni volta, nelle ormai dieci relazioni di inizio anno che ho pronunciato in questa Aula, talora annunciando progressi, altre volte confessando delusioni. Adesso finalmente, finalmente, dopo anni di intensi sforzi, un’aspirazione che fu già dei nostri fondatori si compie e cominciamo a vedere concreta all’orizzonte la possibilità di realizzare un grande campus urbano nel fabbricato che fu prima convento francescano e poi caserma militare per infine ospitare la Polizia di Stato; verrà così restituito alla città un rinnovato luogo di studio e cultura.Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno lavorato a questo progetto e le istituzioni che lo hanno condiviso e reso possibile.

Un’università non è uno spazio fisico: è un luogo. Lo abbiamo compreso contemplando il vuoto doloroso nei mesi delle chiusure, e quando abbiamo poi visto i giovani ansiosi di tornare alla loro realtà esistenziale di studentesse e studenti, che è concepibile soltanto nei luoghi dove l’universitas si incontra e si fa comunità. Gli schermi stanno proiettando le immagini di quella che diventerà, insieme a questi storici e insostituibili chiostri, la nostra nuova casa; permettetemi di esprimere, pur nella consapevolezza che occorreranno tempo e sforzi per vederla compiuta, la grande emozione di pensare che tutto questo, che a lungo è stato un sogno quasi inafferrabile, diventerà realtà. Non credo si possa immaginare un gesto più significativo per marcare il principio di un secolo.

10. Conclusioni

Ritorno, in conclusione, al significato della celebrazione del centenario. In un articolo pubblicato qualche mese or sono si osservava che in una «società che si vuole laica e secolarizzata» è in atto una «caccia sempre più compulsivo-ossessiva di anniversari da trasformare non in festa, ma in ritualità». Per noi questa ricorrenza ha il valore di un simbolo, nel senso etimologico. Il simbolo – si sa – era un mezzo di riconoscimento, creato spezzando un oggetto in modo che i portatori di ciascuno dei due frammenti, facendoli combaciare, potessero riconoscersi. Questo momento di passaggio che stiamo vivendo, dunque, congiunge, non separa: fa coincidere il prima e il dopo, superando ma non abbandonando, nel senso della Aufhebung hegeliana, un passato nel quale si rispecchia il nostro futuro.

Però il centenario evoca anche altro, richiama una delle più antiche suddivisioni del tempo, il Giubileo ebraico, che era un momento di pausa (il riposo della terra) e ridefinizione dei rapporti sociali ed economici, un ciclo al cui completamento seguiva una rinascita. Le pietre miliari della storia ci invitano sempre ad alzare lo sguardo dalle incombenze quotidiane e riflettere sui fini del nostro agire. Pensare a una pausa e una ripartenza, di questi tempi, è immediato. Tante attività sono state sospese o rallentate, alcune addirittura azzerate; molti hanno perduto tantissimo, affetti, sicurezza economica e, in molti casi, psicologica. Tutti abbiamo perduto, come prima dicevo, certezze.

Ora è il momento di tornare a rispondere pienamente alla richiesta di conoscenza dei nostri studenti. Loro, signora Presidente, che in tanti sono venuti oggi per assistere a questa cerimonia e per ascoltarLa e La ringrazio per aver accettato di incontrarli nell’Aula Gemelli alla fine di questa cerimonia, sono la nostra parte di Next generation, per loro siamo qui. Essi rappresentano il rigenerarsi della motivazione iniziale. Rinnovano ogni anno l’atto fondativo, la prima pietra posta cento anni fa. Quando un professore entra in aula, si rende conto che in quei volti, diversi ogni anno ma animati dalla stessa attesa di conoscenza, si ricrea il senso dell’istituzione universitaria, la radice del suo esistere.

Guardando un’aula gremita e gli occhi curiosi dei ragazzi, all’inizio della prima lezione del corso, si coglie il valore profetico dell’espressione di Martin Heidegger: «L’Inizio è ancora. Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, davanti a noi»

 

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