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In Palestina, fino a che punto valgono i diritti dei bambini?

26 novembre 2025

In Palestina, fino a che punto valgono i diritti dei bambini?

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“I diritti dei bambini in Palestina sono importanti, ma fino ad un certo punto?” Era questo il titolo, evidentemente provocatorio, del seminario di studio che lunedì 24 novembre ha riunito docenti e attivisti nella sede di Milano dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Promossa dai professori dell’Ateneo che hanno firmato nelle scorse settimane un appello per la pace, l’iniziativa è stata accolta con favore dal rettore Elena Beccalli, che nei saluti, ad introduzione del convegno, ha sottolineato come lei stessa avesse sollecitato la comunità accademica a farsi avanti su un tema tanto drammatico e urgente.

Questo convegno è un nuovo tassello che si aggiunge ai molti altri», ha sottolineato la professoressa Beccalli, ricordando l’impegno dell’Ateneo come «istituzione di pace».

Di questo mosaico il Rettore ha voluto in particolare indicare alcune tessere: il festival dell’educazione a Brescia e la settimana sul dono a Piacenza, declinati entrambi su questo tema. E ancora le possibilità di formazione offerte in particolare dalla Facoltà di Medicina a studenti palestinesi.

Tra questi studenti, beneficiari di un corridoio universitario aperto dalla Farnesina, c’è Joslin Aldadah, che, in virtù di quell’accordo, ha potuto proseguire il tirocinio al Policlinico Gemelli.

Proprio lei è stata invitata a raccontare quello a cui ha assisto a Gaza svolgendo il proprio servizio in un ospedale della Striscia durante l’intervento militare di Israele seguito all’attentato di Hamas il 7 ottobre 2023 e terminato con una tregua all’inizio di ottobre di quest’anno.

Il suo intervento si è aggiunto alle testimonianze degli operatori umanitari impegnati sul campo: Miriam Ambrosini, che per Terres des Hommes lavora in Cisgiordania, collegata l’altra sera da Bagdad e sempre da remoto Ricardo Pires, vicepresidente di Unicef.

Un articolo di

Francesco Chiavarini

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Ad aprire l’incontro è stato Giorgio Del Zanna che ha offerto un’analisi sulle ragioni storiche e sociali che hanno portato «due popoli dai destini intrecciati», quello israeliano e palestinese, a produrre, nello stesso territorio, «due società separate».

Ripercorrendo la storia di Israele dall’epoca del Mandato britannico alla guerra del 1948, dal 1967 al processo di Oslo, Del Zanna ha sottolineato come l’idea dei “due Stati”, accolta inizialmente come un compromesso onorevole, sia stata all’origine di questo allontanamento per poi affievolirsi sempre di più  a causa di dinamiche interne: la trasformazione della politica israeliana dal laburismo al sionismo revisionista, la crescita dei coloni (oggi circa 700.000), l’emergere di un ebraismo fondamentalista, tra i palestinesi l’ascesa di Hamas in un contesto di separazione sempre più rigida.

Una separazione materiale e simbolica che riguarda anche i più giovani: «A Gaza – ha ricordato – è nata una generazione che non ha mai potuto uscire dai confini della Striscia. I giovani palestinesi non conoscono più l’ebraico. E la separazione imposta dal muro ha chiuso la Cisgiordania, ma ha chiuso anche Israele». 

In questo contesto a pagare il prezzo più alto sono stati i bambini.

«La mancanza di acqua potabile sta facendo diffondere malattie come l’epatite A. È quasi impossibile trovare un bambino che non abbia sofferto malattie intestinali o infezioni. La carenza di beni essenziali e di cure porta i più vulnerabili alla morte», ha sottolineato Joslin Aldadah.

Per non parlare delle ferite indelebili della guerra.

«Molti bambini hanno perso le braccia o le gambe. Queste amputazioni impediranno loro di vivere una vita normale. Ma non sono meno gravi le ferite piscologiche. Molti hanno visto morire i genitori, i parenti, i vicini di casa. Tutti traumi di cui sono noti gli effetti sullo sviluppo di un individuo», ha spiegato Aldadah.

«Rischiamo una generazione perduta», ha affermato, Ricardo Pires che ha ricordato i dati dell’ultimo rapporto Unicef sull’istruzione a Gaza: 97% delle scuole a Gaza è danneggiato o distrutto; oltre 600.000 bambini sono fuori dalla scuola da due anni.

Il sistema che doveva proteggere i bambini – le scuole, i servizi sociali, le strutture sanitarie – o non esiste più o è gravemente compromesso. Ma c’è anche un’aggressione più sottile che avviene fuori da Gaza. Su questa ha voluto puntare il dito Miriam Ambrosini.

L’attivista ha raccontato che a Gerusalemme est, negli ultimi due anni le scuole pubbliche palestinesi sono state messe al bando. Il che comporta – ha spiegato - che possono essere fermati e arresati i bambini se vengano trovati per strada con i libri di testo di quei programmi. «Impedire ai bambini palestinesi di crescere con le loro radici rientra in una strategia di annullamento della memoria, delle identità di un popolo. Ed è questo quello che ci deve fare più paura», ha denunciato Ambrosini.

Secondo Marco Pietripaoli del Comitato milanese di Unicef, non vi sono molti dubbi che dei 54 articoli della Convezione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza Israele in Palestina ne abbia violati almeno i primi 42: da quelli più elementari come l’accesso all’acqua e al cibo a quelli meno materiali; l’informazione, l’educazione, la cultura».

Ma ciò che ancora più addolora, secondo Antonio Scordia di Amnesty International, che rivendica l’impegno della ong contro l’antisemitismo, è che a perpetrare queste violazioni sia uno stato nato dopo la Shoah: «Queste violazioni colpiscono la stessa identità di Israele» 

In questo quadro quale futuro è possibile? Come ritrovare la fiducia reciproca in una società segnata da tanta violenza e divisione? Secondo il professore Alessandro Vaccarelli, docente di Pedagogia generale e sociale dell’Università dell’Aquila, si potrebbe iniziare proprio dal riconoscimento delle proprie memorie e sofferenze. «Si farebbe un enorme passo in avanti se la Shoah e la Nakba, pur nella loro differenze, smettessero di essere rivendicate come tragedie concorrenti», ha sostenuto.

La bussola per orientarsi resta il diritto internazionale: è stato il monito partito dal seminario. «Riconoscerlo - ha concluso Silvio Premoli, professore in pedagogia generale e sociale all’Università cattolica - tutela i bambini palestinesi e israeliani e l’infanzia ovunque sia colpita dalla violenza e dalla guerra in Congo come nelle Yemen» 

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