Rivolgo a tutti un caloroso benvenuto all’inaugurazione dell’anno accademico 2022/2023 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Un sentito ringraziamento a Sua Eminenza il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, per aver accettato di tenere l’odierna prolusione. Questa è una giornata importante per la nostra comunità universitaria, perché al Cardinale Ravasi verrà conferita la Laurea Honoris Causa della Facoltà di Lettere e Filosofia. Esprimo vivo compiacimento verso la Facoltà, verso il preside prof. Angelo Bianchi, che ha avviato il processo di conferimento, e il preside prof. Andrea Canova che lo ha portato a compimento, per aver accolto tra i laureati dell’Ateneo uno degli intellettuali più colti e acuti del nostro tempo. Il Cardinale Ravasi terrà una prolusione dal titolo “Cosa hanno in comune Gerusalemme e Atene? L’umanesimo cristiano antico” che ci aprirà uno stimolante orizzonte interpretativo dell’origine della nostra civiltà.
Un sincero e particolare ringraziamento rivolgo al Ministro dell’Università e della Ricerca, la prof.ssa Anna Maria Bernini, per aver voluto onorare questa cerimonia con la sua presenza e un suo intervento.
Ringrazio Sua Eccellenza Reverendissima Mons. Mario Delpini, Presidente dell’Istituto Toniolo di Studi Superiori, per aver presieduto la celebrazione eucaristica nella Basilica di Sant’Ambrogio e per il saluto che vorrà portarci al termine del mio intervento, al quale seguirà quello del Sindaco di Milano, dott. Giuseppe Sala.
Saluto l’Assistente Ecclesiastico Generale dell’Ateneo, Mons. Claudio Giuliodori, i componenti del Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo e dell’Istituto Toniolo di Studi Superiori.
Rivolgo un cordiale saluto e un ringraziamento ai Pro-Rettori e ai Delegati Rettorali, per il costante, efficace e amichevole sostegno che mi hanno assicurato nell’assolvimento dei miei compiti. Ai Presidi, per l’opera svolta alla guida delle rispettive Facoltà e nell’ambito del Senato Accademico. In particolare un augurio di buon lavoro ai nuovi Presidi, proff. Andrea Canova e Antonio Gasbarrini, e a quelli che sono stati quest’anno confermati nella carica. Un saluto cordiale ai proff. Angelo Bianchi e Rocco Bellantone, che, nell’anno trascorso, hanno completato il loro terzo mandato.
Ringrazio il Direttore Generale, dott. Paolo Nusiner, per l’intelligente e qualificata opera di gestione dell’Ateneo.
Saluto, ancora, tutte le Autorità Accademiche, Civili, Militari e Religiose, i colleghi docenti, il personale tecnico amministrativo e, con particolare affetto, le studentesse e gli studenti.
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1. La Relazione che mi accingo a svolgere - più breve del consueto, per la felice ricchezza del programma odierno - racconta di un anno particolare, nel quale, mentre sull’Europa si proiettava l’ombra cupa di una guerra imprevista e incomprensibile, le università tornavano progressivamente alla normalità.
Sarebbe però sbrigativo proclamare con affrettato sollievo che per il sistema universitario, dopo aver dato un’innegabile prova di capacità di reazione, garantendo continuità alle attività didattiche nonostante le restrizioni imposte dalla pandemia, nulla è cambiato.
Al contrario, l’esperienza di questi ultimi anni ha fatto emergere con prepotenza, accelerando processi già in atto, i segni di un mutamento profondo, dai quali non è possibile distogliere l’attenzione.
Il ricorso protratto a una didattica affidata esclusivamente alle tecnologie di comunicazione a distanza, per diffuso stilema definite “nuove” (ma solo perché nuovo e, per certi aspetti, colpevolmente tardivo ne è stato l’impiego da parte degli atenei), ha prodotto effetti non circoscritti alla mera e accidentale modalità dello svolgimento delle lezioni.
Abbiamo sperimentato una dematerializzazione del rapporto educativo capace di conseguenze non transitorie, che investono il valore e il ruolo sociale delle università, ed in particolare di quella configurazione che esse hanno acquisito attraverso un’evoluzione plurisecolare.
Le università si sono sviluppate e accreditate nel tempo come istituzioni, in quanto stabili punti di riferimento cui sono affidate plurime riconosciute funzioni sociali; ossia contesti di elaborazione e custodia di conoscenze in molteplici discipline, che si sedimentano nella cultura di una società; realtà deputate al completamento della formazione personale; autorità di certificazione delle conoscenze e delle competenze e perciò anche abilitanti all’esercizio delle attività che quelle conoscenze presuppongono. Per queste loro funzioni le università hanno nel tempo assunto un connotato di necessità nell’organizzazione sociale e nelle strutture degli apparati pubblici.
La solidità sociale dell’università, sintesi di tradizione e autorevolezza, è rappresentata esteriormente dal suo essere uno spazio fisico. Di un’università si ha spesso nella memoria l’immagine di una facciata, un portale d’ingresso, un chiostro, un’aula; luoghi impressi nel ricordo personale di coloro che li hanno abitati come studenti, ma anche di chi è transitato episodicamente per una cerimonia o un convegno, per una ricerca in biblioteca. La sede dell’università la lega a una comunità cittadina, che spesso è cresciuta insieme alla sua università: è uno dei luoghi identitari della città e ha contribuito a scriverne la storia.
Questa dimensione istituzionale, nelle sue molteplici accezioni e funzioni, appare oggi messa in discussione.
La dematerializzazione e la delocalizzazione della didattica sono ormai un fatto. Al momento avvertibile soprattutto per i corsi post-lauream: penso ai tanti corsi di master rivolti a persone in cerca di conoscenze avanzate e specialistiche e di modelli didattici conciliabili con gli impegni lavorativi; per questi utenti “esperti” ed “esigenti” è facile scegliere un corso on line offerto da un ateneo sito in qualsiasi parte del mondo: il mercato dell’alta formazione si va globalizzando.
Per i corsi di primo e secondo livello il fenomeno è per certi aspetti assai meno significativo, ma è quantitativamente rilevante e in crescita costante.
Ci sarà dunque un momento in cui, invece di andare all’università, ci si limiterà a connettersi con l’università? E con quali ricadute sulla qualità dell’esperienza educativa, in una stagione della vita importante nel percorso di crescita della persona?
La questione, è evidente, non è confinata nella ristretta prospettiva delle modalità di erogazione della didattica, ma sfida il funzionamento e il riconoscimento sociale dei sistemi educativi. E lo fa ancor più intensamente se si considera che nel “mercato” globalizzato dell’educazione superiore anche la tipologia degli attori si è ampliata.
Le università – e le istituzioni di ricerca – non hanno più da tempo l’esclusiva del progresso delle conoscenze, in particolare di quelle applicate. I grandi soggetti privati e multinazionali sono i motori dell’innovazione tecnologica e hanno una sempre più forte propensione a formare direttamente le persone di cui hanno bisogno: è in atto, insomma, un processo di disintermediazione. I leader dell’economia globale dispongono di capitali ingenti, possiedono una cultura manageriale attrattiva per i talenti e sviluppano l’infrastruttura tecnologica necessaria. Che cosa impedisce a questi giganti di entrare nel mondo della formazione universitaria? Di superare il confine dell’attività, che le imprese hanno sempre svolto, di “rifinitura” delle competenze dei neo assunti, integrandole con quelle specificamente funzionali ai loro bisogni, e di irrompere nel ricco mercato della higher education? Sappiamo bene che in molte società occidentali mature educazione e cura della salute sono due settori economici, due business, importanti, ai quali si rivolge l’interesse di un numero crescente di operatori profit.
Oggi, insomma, l’università è proiettata verso un nuovo contesto competitivo, un mercato nel quale alla crisi dell’università come istituzione corrisponde la crescita di un’industria della formazione. Si viene così delineando un sistema ibrido di education providers, e si vanno moltiplicando i soggetti legittimati a quella funzione di certificazione delle competenze che fino ad oggi abbiamo inteso riservata ai sistemi di educazione pubblica.
È una deriva alla quale le università devono resistere, non per conservare posizioni cristallizzate, ma per difendere la parte più nobile del loro ruolo. E per farlo devono vincere molte tentazioni alle quali il nuovo contesto competitivo le espone.
Anzitutto quella di recedere sulla qualità della didattica. “Mercato” implica concorrenza, che può essere anche concorrenza di prezzo, non in termini di costo dell’iscrizione, ma di rigore nella formazione, di preferenza verso una competenza utile rispetto a una conoscenza di lungo periodo (ma che altrettanto richiede tempi più lunghi per essere conquistata). La serietà degli studi è la linea di trincea, ogni cedimento sarebbe esiziale.
E poi quella di seguire la strada della crescente professionalizzazione, della rincorsa alle mutevoli richieste del mercato del lavoro così come si manifestano adesso, in un oggi che però diventa subito ieri.
E ancora la tentazione di tradurre il tema del valore in quello più scivoloso della qualità misurabile. Una tendenza in espansione in molti ambiti: una società coesa esprime parametri valutativi sicuri e condivisi e sa riconoscere il valore; quella destrutturata e “liquida”, disorientata, ha bisogno di elaborare parametri formali – procedimentali o quantitativi – e sempre più spesso fraintende l’attribuzione di valore con la meccanica compilazione di classifiche.
Non vi è dubbio che l’avvio di processi di valutazione ha in molti casi favorito il miglioramento dell’attività degli atenei in termini di produttività dei ricercatori, qualità della didattica, servizi agli studenti, livello delle relazioni nazionali e internazionali. Ma l’enfasi sui processi valutativi e i relativi risultati pone uno strisciante dilemma: dobbiamo inseguire quegli obiettivi che, agendo sugli indicatori esteriori e convenzionali, ci portano a migliorare la posizione rispetto ai concorrenti; oppure dobbiamo tendere a quelli che sono indispensabili allo sviluppo della missione educativa, che, nel caso del nostro Ateneo, è innervata da una precisa identità valoriale e culturale?
La contrapposizione non è fortunatamente così radicale, perché la qualità educativa che esprime un ateneo si riverbera sul suo apprezzamento sociale, sul suo posizionamento nel “mercato” di cui prima dicevo.
Il punto di principio è però un altro; un po’ come Socrate di fronte a Eutìfrone, cerchiamo di capire quale debba essere la dimensione fondante e quale la derivata.
La risposta può consistere nella riaffermazione dell’identità dell’università, radicata in una serie di fattori.
Senza completezza, almeno tre.
Il primo: l’essere sintesi di ricerca scientifica ed educazione. Chi insegna in una università deve trasmettere anzitutto l’aspirazione alla conoscenza, non semplici nozioni o competenze operative, e dunque deve essere egli stesso attivo nella ricerca scientifica; che è altro, e di più, rispetto allo sforzo di innovazione tecnologica.
Il secondo, l’essere comunità educante. Le università producono capitale umano perché sono, o nella misura in cui riescono a essere, giacimenti di capitale umano, quello dei docenti e degli studenti: l’università dematerializzata non ha un luogo, non ha un corpo docente, bensì una serie di conferenzieri, e non ha una comunità di studenti in dialogo tra loro e con i docenti. Lo ha spiegato il Santo Padre Francesco, «Dove non c’è dialogo, dove non c’è confronto, ascolto, rispetto per come la pensa l’altro, dove non c’è amicizia, la gioia del gioco dello sport, non c’è università».
Il terzo: la reputazione, fatta di qualità nella ricerca e nella didattica, e di capacità di virtuosa relazione con il contesto sociale. Le università non a caso sono in un luogo, perché appartengono a una comunità, ne promuovono i valori, ne formano la classe dirigente. In altre parole la reputazione consiste nella riconosciuta capacità di creare valore pubblico.
Se questi sono i compiti, poche parole per illustrare con quali strumenti la nostra università si è attrezzata per affrontarli.
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