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Inclusione “20.20”, gli effetti del lockdown sugli alunni più fragili

26 marzo 2021

Inclusione “20.20”, gli effetti del lockdown sugli alunni più fragili

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Il Covid-19 ha imposto cambiamenti alla società e ai singoli individui. Uno dei settori che ha dovuto adattarvisi con maggiore velocità è quello scolastico. E oltre agli insegnanti, ad essere stati messi a dura prova sono stati anche gli alunni, in particolare quelli più fragili. Il Centro Studi e Ricerche sulla Disabilità e la Marginalità (CeDisMa) dell’Università Cattolica, ha realizzato la ricerca FocuScuola. Inclusione 20.20, con lo scopo di esplorare lo stato dell’arte dei processi inclusivi al rientro in presenza dopo il primo periodo di lockdown. Ne abbiamo parlato con la prof.ssa Elena Zanfroni che – insieme alla prof.ssa Silvia Maggiolini, alla prof.ssa Roberta Sala e al prof. Giovanni Zampieri – ha fatto parte del team di ricerca, coordinato dal prof. Luigi d’Alonzo, direttore del CeDisMA e docente di Didattica e Pedagogia speciale.

Quali problematiche hanno dovuto affrontare gli alunni più fragili?
«Inizialmente c’è stato un disorientamento per tutti e per i ragazzi con disabilità è stato ancora più difficile. In molte occasioni si sono ritrovati senza la possibilità di partecipare alla didattica a distanza perché magari non avevano nessuno che potesse seguirli anche nei collegamenti. Al di là dell’aspetto meramente tecnico però, in alcuni casi si ha avuto la difficoltà di creare delle attività a distanza che potessero coinvolgere anche loro e di conseguenza si sono trovati isolati anche dal gruppo classe. A loro è mancato improvvisamente tutto. Questa solitudine ha colpito non solo i ragazzi con disabilità ma anche le stesse famiglie. Situazioni in cui ciò che ha contribuito a fare la differenza è stata la competenza di chi era chiamato in causa. Abbiamo avuto infatti anche esperienze molto positive di docenti che hanno capito come mantenere i contatti e le relazioni».

L’84% del campione da voi esaminato afferma di aver realizzato un’attività specifica di accoglienza ma di che tipo?
«Le attività di accoglienza possono essere diverse: dipende molto dall’ordine di scuola e dalle competenze degli insegnati. Quello che abbiamo potuto notare però è che quando cercavamo di capire più nel dettaglio il tipo di attività proposta, per molti la risposta è stata quella della semplificazione e facilitazione dei contenuti. In alcuni casi non si è stati consapevoli che, con la DAD, l’approccio sarebbe dovuto cambiare radicalmente. Tanti hanno traslato quello che facevano in classe tutti i giorni, ma questo ha fatto in modo che si perdessero alcuni alunni, soprattutto quelli più fragili, non solo quelli con disabilità. In alcune situazioni è mancata quella fase di colloquio e dialogo reciproci molto importante. Ci sono state però anche tante situazioni positive».

Con l’arrivo della seconda ondata la didattica in presenza avviata a settembre ha subito un nuovo arresto. Sono subentrate nuove difficoltà?
«Durante la seconda ondata, chi ha fatto tesoro di quanto accaduto nel primo lockdown è riuscito a mettere meglio a tema una proposta di didattica a distanza. Gli altri invece hanno perseverato in una logica di emergenza, proseguendo in modo non strutturato, senza meta e a farne le spese sono stati principalmente gli alunni più vulnerabili. Alcuni ragazzi sono stati tenuti a casa nella prima parte dell’anno, quando si poteva tornare a scuola, perché non c’era ancora una totale sicurezza o non erano ancora stati assegnati gli insegnati di sostegno. Ma quando si sono presentate le premesse per il rientro si sono ritrovati davanti una nuova chiusura, seppur parziale. In una situazione del genere è difficile riuscire a intessere rapporti tra alunni. La creazione di gruppi più piccoli all’interno della classe potrebbe essere d’aiuto per mantenere legami anche con i ragazzi con disabilità. Non si possono costruire le relazioni a tavolino ma bisogna comunque trovare le modalità per alimentarle per sollecitarle».

L’inclusività passa anche dalle relazioni extrascolastiche tra gli alunni. Dalla ricerca emerge però che una larga parte del campione non riesce a fornire un’esatta risposta rispetto alla reale inclusione dell’alunno con disabilità al di fuori dell’ambito scolastico…
«Il dato mette in luce un po’ quello che tante volte manca all’inclusione per essere tale. Il primo obiettivo per i ragazzi dovrebbe essere quello di stare bene a scuola. E ciò vuol dire non solo svolgere il programma, raggiungere gli obiettivi dal punto di vista didattico, ma stare bene anche dal punto di vista relazionale. Se non c’è nessuno che facilita le relazioni con gli altri, il bambino, il ragazzo con disabilità rischia di ritrovarsi isolato. Quello che spesso non si fa è raccontare la vita del compagno, cercando non di allargare la forbice tra lui e gli altri ma di ragionare sulla diversità di ragionamento, sulle difficoltà che comunque chiunque potrebbe avere. Ci sono tante strategie in questo senso che però non sempre vengono prese in considerazione, o meglio, vengono seguite da chi è formato, da chi ha competenze e molto meno da chi si improvvisa insegnante».

Un articolo di

Annarosa Laureti

Scuola di Giornalismo

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