Monica Maggioni è tornata nelle aule dell'Università Cattolica, a Milano, lo stesso luogo in cui il suo viaggio professionale ha avuto inizio. Anni fa, tra queste stesse mura, frequentava il corso di Lingue e letterature straniere moderne, coltivando una passione che l’avrebbe portata lontano, fino a diventare una delle voci più autorevoli del giornalismo italiano. Con determinazione e talento, ha costruito una carriera brillante, distinguendosi come giornalista di primo piano in Rai e, successivamente, come corrispondente di guerra. La sua firma ha raccontato alcuni eventi cruciali degli ultimi decenni, offrendoci uno sguardo diretto e incisivo su realtà spesso lontane e complesse. Tra le sue esperienze più significative, spiccano i reportage dal Sudafrica, le cronache da Israele durante la seconda Intifada e, soprattutto, la copertura della guerra del Golfo in Iraq nel 2003, dove ha vissuto a stretto contatto con le truppe statunitensi. Questi incarichi all'estero non sono stati solo tappe professionali, ma anche il coronamento di un sogno coltivato fin dai tempi dell’università. Un sogno che ha condiviso con emozione durante il quarto incontro del ciclo "Raccontare la guerra", promosso dall’Alta Scuola in Economia e Relazioni internazionali-ASERI, e moderato dal professor Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali dell’Ateneo.
Raccontare la guerra non è mai stato semplice, e lo è ancora meno oggi, in un’epoca in cui i conflitti si trasformano rapidamente e le modalità di narrazione devono adattarsi a tecnologie sempre più avanzate. Monica Maggioni lo ha sottolineato con forza: «Oggi i conflitti evolvono come mai prima d’ora: le battaglie di trincea convivono con guerre invisibili combattute nel deep web. In un mondo così complesso, si pensava che gli inviati sul campo sarebbero diventati superflui. E invece no. Le nuove tecnologie hanno cambiato le regole del gioco, permettendo di mostrare la distruzione in modo diretto e crudo. E prosegue - ogni metro quadrato racconta una storia spezzata, una vita sconvolta. Mostrare questa realtà senza filtri non è solo un atto di cronaca: è un dovere morale. Altrimenti, si rischia di far sbiadire il dolore delle vittime, rendendolo invisibile al mondo intero».