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Storie di guerra raccontate con foto da Pulitzer

19 gennaio 2023

Storie di guerra raccontate con foto da Pulitzer

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Occhio per l’estetica e profondità: sono questi i due ingredienti per una foto da premio Pulitzer secondo Lorenzo Tugnoli, 43 anni, fotoreporter, che il Pulitzer se lo è aggiudicato, primo e unico italiano, nel 2019 con un fotoreportage realizzato nello Yemen, che gli è valso anche il World Press Photo.

Il fotografo sarà protagonista dell’incontro del corso di formazione Cives “Zona franca”, promosso dall’Università Cattolica di Piacenza e dalla Diocesi di Piacenza-Bobbio, in programma domani venerdì 19 gennaio, alle 20.30, durante il quale interverrà sul tema “Oltre la guerra ci sono tante storie da raccontare”.

Tugnoli ha attraversato diversi teatri di guerra, soffermandosi spesso, più che sui combattimenti, sui momenti precedenti lo scoppio dei conflitti, sulle loro cause e sulle loro conseguenze. Perché «davanti allo strazio della guerra, non esistono storie minori».

Lavorare in contesti di guerra significa lavorare “davanti al dolore degli altri”, questione posta dalla filosofa Susan Sontag, che si interroga sulle potenzialità e i limiti delle immagini quando esse rappresentano l’orrore e la violenza. Lei che risposta si è dato?

«Faccio il fotografo di guerra dal 2010 e ho maturato la convinzione che davanti a situazioni difficili, di dolore e disperazione, ci sono due cose da fare: lavorare con grande professionalità e con profonda umanità. Dev’essere molto chiaro a noi e a chi ci sta davanti che siamo giornalisti e che siamo lì per testimoniare quanto accade, dobbiamo essere noi a spiegare il nostro ruolo. A questo deve unirsi l’umanità, che ci impone uno sguardo rispettoso, capace di pudore nei confronti dell’altro. Parlando del reportage nello Yemen, ad esempio, dove c’erano molti bambini che soffrivano e immagini che in qualche modo dovevano essere fatte, il mio sforzo è stato quello di rappresentarli come se fossero persone di famiglia, a cui voglio bene. La domanda da porsi è sempre: se ci fossi io in quella situazione, sarei contento di essere rappresentato sui giornali in quel modo?».

Una rappresentazione che deve fondere potenza nella composizione dell’immagine e negazione di un forzato sensazionalismo: il pensiero corre all’immagine dell’uomo sul ciglio della strada, immobile, a fissare, in stato di shock, che lei ha ritratto a Beirut subito dopo l’esplosione nei pressi del porto di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio. «Pochi minuti dopo l’esplosione ho scattato la foto a uno dei sopravvissuti e poi, nel caos, non sono riuscito a parlargli. La foto è stata pubblicata dal Washington Post e poi premiata al World Press Photo of the Year. Mesi dopo sono riuscito a mettermi in contatto con lui e a sapere cosa pensasse di come l’avevo rappresentato. Del resto, centinaia di migliaia di persone avevano visto la sua foto su The Post, e poi, dopo il premio, altri milioni l'hanno vista, ed Elie è diventato involontariamente un'icona del disastro di Beirut. Incontrarlo è stato molto interessante, sentire la sua opinione, e avere da lui un ritorno positivo».

Si è chiesto cosa renda le sue immagini foto da premio Pulitzer?
«Le foto premiate dal Pulitzer sono molto legate allo spessore con cui si è riusciti a seguire una storia. Le immagini premiate dal Pulitzer sono quelle molto difficili da riuscire a scattare. Nel caso del lavoro sullo Yemen ci sono tanti motivi per il premio: tra le principali motivazioni credo una grandissima profondità della ricerca giornalistica sul paese fatta da me e dai giornalisti del Washington Post con cui ho lavorato in quell’anno. E poi ci dev’essere un’attenzione particolare per l’estetica dell’immagine e, di nuovo, per l’umanità che traspare da quegli scatti».

C’è uno scatto a cui è particolarmente legato?
«Ce ne sono tanti. Sono affezionato a fotografie spesso un po’ laterali, che non sono descrittive in modo completamente esplicito. C’è un’immagine dello Yemen che è girata molto: ritrae una donna di spalle, sulla porta di “casa”. La ricordo con grande affetto, perché rappresenta per me tante cose, soprattutto il fatto di aver costruito un rapporto con le persone ritratte in quel reportage. Quella ragazza abita in un campo profughi, era incinta al momento dello scatto, e da lei, dalla sua famiglia, siamo tornati. Li abbiamo intervistati, abbiamo fotografato la loro vita, ma poi siamo tornati a trovarli. Quella foto poi è stata usata come prima pagina del giornale, a raffigurare una storia che parla di rifugiati, anche se non era una classica foto da prima pagina, perché ha una bellezza sul colore, sulle linee, ma non è una foto tragica, mantiene rispetto al contesto una sua bellezza, una sua dignità».

Domani ti rivolgerai anche un pubblico di universitari: in che modo la fotografia può impattare su un pubblico di ragazzi sottoposto a una bulimia di immagini mordi e fuggi
«La traccia e il pubblico sono due cose diverse, secondo me. La traccia è qualcosa che rimane nel tempo, propria delle foto iconiche che rimandano a periodi storici particolari. Io sono un fotogiornalista, e non ricerco foto iconiche: a me interessa raccontare storie attraverso una serie di immagini, da “raccogliere” utilizzando il tempo necessario. La parte interessante del mio lavoro è che posso vedere ciò che succede giorno per giorno e che, con il tempo, diventa storia, come mi è successo in Afghanistan, terra che frequento da 10 anni e ci sono cose che ho fotografato che oggi sono un pezzo di storia. Le mie foto vengono pubblicate sui giornali e poi sui social, che sono uno strumento meraviglioso per connetterci per avere interazioni, e per trasmettere emozioni. È lì che entro in dialogo con un pubblico di tutte le età».  

Un articolo di

Sabrina Cliti

Sabrina Cliti

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