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COP28 tra phasing out e transitioning away

18 dicembre 2023

COP28 tra phasing out e transitioning away

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Come sempre avviene alla fine di una Conference of the Parties della Convenzione sul Clima, l’attenzione dell’opinione pubblica si è appuntata su aspetti simbolici della COP28 di Dubai. Si è appuntata in particolare sull’accettazione da parte del mondo oil and gas, che ospitava la COP28, di una chiamata a transitioning away dalle fonti fossili, peraltro già avviata di fatto, come compromesso tra la posizione di phasing out del mondo occidentale e quella di non citazione delle fossili preferita dallo stesso mondo oil and gas. In realtà, la sottoscrizione di un transitioning ways da parte di questi paesi corrisponde al loro realismo politico nell’ambito della loro più ampia strategia di posizionamento nello scacchiere internazionale, segnata dalla mediazione nella crisi di Gaza nell’ambito di un ridisegno complessivo delle leadership nel Medio Oriente e, in modo tangibile, dalla pervasiva messa in campo globale delle loro rendite oil and gas, massimizzate dalla speculazione energetica innescata dalla crisi ucraina, soprattutto ai danni dell’Europa. La loro resa è quindi solo apparente e simboleggia tutt’altro che un’accettazione della fine del petrolio.

I risultati più importanti, che tuttavia non sono un nuovo trattato vincolante, riguardano gli aspetti più tecnici delle conclusioni del primo esercizio di global stocktaking dell’Accordo di Parigi avvenuto a Dubai.

Il primo è la convergenza globale sulla necessità di raggiungere il Net Zero di emissioni di gas serra entro il 2050, possibilmente prima, per restare al sicuro dagli aumenti di temperatura globale. Con ciò viene confermato e sancito che a guidare i grandi target delle politiche globali è la scienza del clima dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, e cioè la comunità globale degli scienziati. È la linea già adottata con i target di Parigi in termini di temperature (2°C o 1,5°C di aumento massimo rispetto all’era preindustriale), e conferma che per il clima è in atto il più grande esercizio mai sperimentato di science for policy, più forte di negazionismi vecchi e nuovi. È la stessa linea che alimenta la base di riferimento scientifico della Laudate Deum di Papa Francesco.

L’altro risultato di rilievo, necessario al precedente, è la convergenza delle COP28 verso l’obiettivo di triplicare il contributo delle rinnovabili su scala globale e di raddoppiare il tasso di miglioramento dell’efficienza energetica, entrambi al 2030. Come suggeriscono le analisi della International Energy Agency, il raggiungimento del Net Zero non può prescindere da una rivoluzione dell’energy mix, a partire da una situazione attuale in cui le fossili restano dominanti su scala globale. Un’espansione così forte delle rinnovabili è attrattiva da un punto di vista economico, data la combinazione tra crescente competitività economica e politiche di sussidi, ma può avere criticità per la parte delle rinnovabili territoriali, ricordando che, ad esempio, nella UE oltre la metà della produzione di energia da rinnovabili proviene da biomassa, anche con impatti ecosistemici. Ideale è invece la via dell’efficienza energetica, cioè risparmio a parità di performance economica, ma essa è molto meno agevole dal punto di vista delle policy, anche per la sua dipendenza dai comportamenti diffusi, il cui cambiamento è, secondo IEA, decisivo per il Net Zero ma segnato da alte barriere culturali negli stili di vita.

L’altro risultato è la crescente rilevanza assegnata, nelle conclusioni della COP, all’adattamento, cioè alle strategie da intraprendere con cambiamento climatico non mitigato o non mitigabile per ridurne i danni a patrimoni e persone, in particolare nei paesi poveri, ma anche in quelli ricchi - si pensi agli effetti degli estremi climatici in Italia la scorsa estate. Tale nuova rilevanza è in realtà tardiva rispetto all’urgenza dell’adattamento e alla necessità di considerare il rischio climatico un fattore critico per l’economia – si pensi al recente richiamo delle BCE al sistema finanziario per l’ancora debole considerazione di questo rischio. La spinta verso serie strategie di adattamento emerge attraverso diverse parti delle conclusioni della COP, ad esempio nei passaggi sul tema losses and damages, vale dire come valutare, prevenire e ‘compensare’, internazionalmente e transnazionalmente, i danni causati dal cambiamento climatico, generato per lo più dal mondo ricco e dai paesi emergenti, ai paesi più poveri. Vi è quindi l’esortazione ad aumentare la finanza climatica internazionale per l’adattamento, con un fabbisogno stimato di 215-387 miliardi per anno di assistenza ai Paesi in via di sviluppo.

Tali cifre sono basse, forse troppo basse, nell’ambito del fabbisogno totale stimato di finanza internazionale per il clima, dove il gap di trasferimenti ai Paesi in via di sviluppo viene stimato complessivamente in circa 5,8 trilioni fino al 2030. Sul tema della finanza, le conclusioni delle COP notano with deep regret che l’obiettivo di 100 miliardi di dollari di trasferimento, già deciso a Copenhagen nel 2009, non è stato raggiunto, la stima più ottimistica essendo 89 miliardi. Il tema è di fatto rinviato alla prossima COP che forse dovrà anche chiarire se la climate finance è integrativa dei flussi di assistenza ufficiale allo sviluppo, oppure se ne è un sostituto o la nuova forma, chiarendo inoltre l’effettivo ruolo della finanza privata per il clima nel coacervo di classificazioni e definizioni che lascia ampia incertezza sull’entità, la natura, i modelli e le finalità dei flussi di donazione e prestito. Un’architettura che si è fatta caotica con un fantasmagorico sistema globale di fondi multilaterali e bilaterali di assistenza climatica.

L’Unione Europea porta a casa una conferma della traiettoria di profonda transizione avviata con lo European Green Deal. Il motivo strategico dominante della prossima Commissione che uscirà dalle elezioni europee del 2024, sarà probabilmente la Open Strategic Autonomy, che non dovrebbe indebolire la transizione EGD, ed anzi sostenerla nei prossimi anni, almeno per le forti implicazioni che l’autosufficienza per l’energia e i materiali critici hanno per la Open Strategic Autonomy stessa. Sono già su tale linea le attuali proposte della Commissione per il Green Deal Industrial Plan e i connessi Net Zero Industrial Act e Critical Materials Act, tutti rivolti alla riduzione del rischio di approvvigionamento delle tecnologie Net Zero. Restano inoltre aperte per l’Unione le flessibilità già aperte dalla tassonomia europea per le fonti di transizione, gas e nucleare, insieme ad un'altra flessibilità critica, quella delle tecnologie Carbon Capture, Use and Storage. Per queste ultime, nonostante ne abbia minimizzato il ruolo nelle trattative a Dubai, l’Unione Europea ha una strategia che vale diversi miliardi. Si tratta di tecnologie e soluzioni che di fatto conservano un ruolo per le fossili, consentendo che le loro emissioni non vadano in atmosfera e vengano invece interrate o ‘riciclate’, in una sorta di Economia Circolare della CO2.

Al netto dell’attuale rallentamento attuativo del EGD, associato in parte alle campagne elettorali in atto, che devono soddisfare anche attori critici sulla transizione green, la strada è di non ritorno ed è rafforzata dai risultati della COP28. La UE dovrà naturalmente trovare un’adeguata mobilitazione di finanza pubblica, non facile in uno scenario di consolidamenti budgettari e di nuova governance macroeconomica, e dovrà soprattutto convincere il settore privato che può ottenere benefici netti investendo in una transizione che richiede, fino al 2030, nel solo settore energetico, 520 miliardi di euro di investimenti addizionali annui rispetto a quelli medi degli ultimi anni, per circa due terzi privati secondo diverse stime.

Le conclusioni della COP28 vanno in ogni caso lette sullo sfondo delle già citata evidenza scientifica. Il Sesto Rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico afferma che si è già raggiunto un incremento di 1,1°C di temperatura media globale rispetto all’era preindustriale, e i danni che ne derivano sono già osservabili su diverse scale, con limitati e frammentari sforzi di adattamento per minimizzarli. Lo spazio per tenerci sotto 1,5° gradi è molto limitato, e richiede riduzioni di emissioni globali del 43% entro il 2030 e del 65% entro il 2035 rispetto al 2019. Gli spazi di carbon budget, vale a dire le emissioni cumulative storiche possibili senza superare 1,5°C (con probabilità 50%) sono piccoli, essendo già stato sfruttato il budget per quattro quinti del totale. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico afferma, d’altro canto, che le opzioni tecnologiche e innovative che consentirebbero di stare sotto 1,5°C sono disponibili e fattibili, ovviamente al costo di una storica trasformazione dei sistemi energetici produttivi e socio-comportamentali che deve raggiungere la scala globale. La scala globale è certamente quella chiave, con una annotazione fondamentale sulla ‘responsabilità comune ma differenziata’, principio cardine alle origini della governance del clima, dalla Convenzione Quadro del 1992 al Protocollo di Kyoto del 1997, che sembra tuttavia essersi perso nella fase più recente: il quinto di residuo del ‘carbon budget’ globale deve avere una distribuzione tra paesi che sia equa e giusta alla luce di un principio non rinunciabile di diritto allo sviluppo umano di chi ha meno, con una responsabilità chiave del mondo ricco.

Che sia phasing out o transitioning away dalle fossili, la strada è decisa ma è in salita, e richiede una robusta e convinta cordata nella quale i forti aiutano i deboli, proprio mentre il sistema internazionale sembra entrato in una fase di fallimento storico del multilateralismo tradizionale. Su questo non va dimenticato che, sebbene quella per il clima sia l’unica grande azione collettiva di questa fase storica per un commons globale, gli impegni di Parigi e quelli di Dubai sono, anche se in un quadro cooperativo internazionale, nationally determined, e quindi di natura essenzialmente unilaterale.

 

 


Photo by @UNclimatechange  | CC BY-NC-SA 2.0 DEED

Un articolo di

Roberto Zoboli

Roberto Zoboli

Direttore Alta Scuola per l'Ambiente - Università Cattolica

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