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La necessità di pensare la pace in Terra Santa

15 gennaio 2024

La necessità di pensare la pace in Terra Santa

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Introduzione

Sono lieto e onorato di essere oggi qui, nella vostra venerabile Università, e vi ringrazio per l’invito a tenere questa prolusione. Il tema che avete proposto mi appare come una sfida d’immense proporzioni. Si può ancora “pensare la pace” oggi, in Terra Santa? “Pace” sembra essere oggi una parola lontana, utopica e vuota di contenuto, se non oggetto di strumentalizzazione senza fine. Non di rado, gli stessi che sono a favore della pace terminano i loro discorsi dicendo che per giungervi è inevitabile la guerra. Inoltre, si può ancora parlare di “Terra Santa”? Non è forse questo uno sconcertante ossimoro, una contradictio in terminis? Come ripeteva un saggio francescano, P. Emanuele Testa: «Terra santa e acqua santa sempre fango fanno…». Come uscire dal fango di questa guerra, da quest’orribile pantano in cui più si entra e più pare impossibile uscire?

Come ogni altro abitante della Terra Santa, dal 7 ottobre scorso, sono stato immerso in mare di sangue e fuoco, ma non quelli di Cristo, nostro pace, o dello Spirito, giogo soave e leggero, ma della guerra, «giogo che opprime il popolo», come lo definisce Isaia (9,5). Così, per citare lo stesso profeta, stiamo ancora anelando il giorno in cui «ogni calzatura di soldato che marcia rimbombando e ogni mantello intriso di sangue» siano «bruciati, dati in pasti al fuoco» (Is 9,6). Dal 7 ottobre a oggi, siamo stati presi nel vortice degli eventi e abbiamo visto morte, distruzione, ferite, violenza, rancore, desiderio di vendetta, pur cercan-do, con l’aiuto di Dio, di essere ponte, di tentare una mediazione, di te-nere appese a un filo l’ultima speranza di trattative, ecc… Certamente quanto avvenuto mi ha legato ancor più al gregge di cui sono indegnamente pastore, nonostante le tante fatiche e tensioni che spingono da una parte e dall’altra, anche all’interno della nostra Chiesa..

La nostra terra è ancora ferita e sanguinante, la nostra gente in preda al terrore, al panico, all’incertezza del futuro. Molti hanno di fronte a sé solo macerie.

Premetto subito che in questa sede non entrerò nell’analisi politica della situazione. Non entrerò cioè nelle questioni delle responsabilità, delle scelte politiche di questo o quel governo, o in altre questioni di scelte politiche nel senso stretto. Non è questo ciò che mi è stato chiesto, e non credo sia nemmeno utile. Non parlerò dunque di Gaza, di 7 ottobre, e così via, ma dell’impatto che tutto ciò ha avuto e sta avendo sulla popolazione, toccando solo un paio di punti che mi stanno a cuore e che sono stati oggetto della mia riflessione in questo periodo.

Cercherò, invece, di dire un’opinione sulla necessità di uno sguardo diverso, sull’individuazione di alcune possibili vie per superare l’impasse nella quale ci troviamo.

È chiaro, comunque, che la grave crisi in corso in poco tempo ha spazzato via, come vedremo, anni di dialogo interreligioso, di faticosa costruzione di relazioni tra le diverse comunità religiose e sociali, e ha anche smantellato l’illusione di facili prospettive di pace.

Ciascuno oggi è chiuso nel proprio contesto di vita, all’interno delle rispettive comunità di appartenenza, chiuso nel proprio dolore, spesso anche arrabbiato, deluso, senza fiducia. È chiaro a tutti, dunque, che si dovrà ricominciare daccapo per ricostruire, con pazienza, tenendo conto degli errori del passato, delle tante e troppe ferite del passato e del presente, che forse non erano state prese sufficiente considerazione, e che i tempi di una guarigione, saranno necessariamente lunghi, avranno bisogno di percorsi complessi, ma che saranno comunque decisamente necessari. Si dovrà prendere atto che le parole giustizia, verità, riconciliazione e perdono non potranno essere – come forse è stato fino ad oggi – solo auspici, ma dovranno trovare contesti realmente vissuti, con una interpretazione condivisa, e tornare ad essere espressioni credibili e desiderate, senza le quali sarà difficile pensare ad un futuro di-verso.

Si dovrà credere che, nonostante tutto, sia possibile avere un futuro diverso da quanto guerra e violenza prospettano.

Va detto che c’è un dibattito in corso, e una lettura diversa degli eventi. Per alcuni la novità è solo nell’intensità degli eventi avvenuti dal 7 ottobre, ma non nella loro dinamica, che sarebbe, invece, la stessa dal 1948. Per altri, invece il 7 ottobre è una novità assoluta. E questo dice di quanto le distanze tra le parti siano enormi.

Ad ogni modo, dal 7 ottobre le immagini dei media e dei nostri telefonini sono piene di immagini di sangue, di distruzione e di morte, e anche di dichiarazioni di odio, vendetta e rancore, dove ciascuno si sente vittima, la sola vittima, di tutto questo tsunami di odio che ci ha invaso.

È forse questa una delle difficoltà, di cui ho parlato spesso, di questo nostro tempo, almeno in Terra Santa. Il proprio cuore è talmente pieno, invaso, lacerato dal dolore, da non riuscire a trovare spazio per il dolo-re dell’altro. Ciascuno vede se stesso come vittima, la sola vittima, di questa guerra atroce. Vuole e chiede empatia per la propria situazione, e spesso percepisce nell’esprimere sentimenti di comprensione verso altri da sé, un tradimento o almeno un mancato ascolto della propria sofferenza. Una situazione in tutti i sensi lacerante.

Forse sarebbe meglio il silenzio dinanzi a tutto questo.

Eppure, se il silenzio è quanto mai opportuno, oggi mi si chiede una parola che non posso esimermi dal pronunciare.

Dimensione profetica

In questo travaglio di dover parlare di pace quando tutto sembra dire che non vi sia più speranza, mi sono di grande incoraggiamento i profeti dell’Antico Testamento. Ritengo che, in questa generazione, sia indispensabile la dimensione profetica, essere cioè capaci di visione, di orientare, di dare uno sguardo il più possibile libero sulla vita, rimanendo sempre ancorati alla Parola di Dio, dalla quale attingere forza e ispirazione. Se la Chiesa perde tale dimensione, parla semplicemente di ciò che la gente vuol sentire, che è un rischio ricorrente, soprattutto in Medio Oriente, il rischio di seguire la corrente, anziché orientarla. Al contrario, ciò che è peculiare dei profeti biblici è che spiazzano sempre le attese del popolo. Quando esso è tranquillo e sereno, adagiato nelle sue borghesi sicurezze, il profeta scardina i suoi schemi e lo chiama a conversione, minacciando future sventure se questa non avvenga. Quando, tuttavia, il popolo è in esilio, senza speranza, e le sue città ridotte a un cumulo di rovine, il profeta stranamente lo spiazza ancora: gli dona consolazione e speranza. Certo, il profeta è pur sempre lacerato interiormente: come uomo di Dio deve annunciare la sua Parola, come uomo tra gli uomini e donne della sua generazione subisce la stessa sorte del popolo e deve vedere sangue e distruzione. La vita del profeta contiene sempre un elemento drammatico: appartenendo tutto a Dio e tutto al popolo, egli è dilaniato dall’appartenenza ad entrambi, spesso solo, chiamato ad essere voce che grida fuori dal coro: voce di minaccia e di consolazione, che da una parte ferisce e dall’altra consola. [Perfino il libro più triste e straziante della Bibbia, il libro delle Lamentazioni, ha un cuore che è pieno di speranza (al centro della terza lamentazione delle cinque, quella centrale), in cui si ripete per tre volte il termine tov, «buono»: «Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca. Buono è aspettare in silenzio la salvezza del Signore. Buono è per l’uomo portare il giogo nella sua giovinezza» (Lam 3,25-27). Anche nella tragedia attuale, dunque, dobbiamo tornare al cuore di questo libro, a ciò che è tov, buono, alla speranza.]

Non va dimenticato, inoltre, che dopo l’esilio – l’esperienza più de-vastante nell’Antico Testamento – i profeti hanno incoraggiato il popolo con parole di consolazione e speranza. Una, in particolare, mi è caro ricordare qui: «Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore –, coraggio Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote, coraggio, popolo tutto del paese – oracolo del Signore – e al lavoro, perché io sono con voi – oracolo del Signore degli eserciti» (Ag 2,4). Il profeta deve per tre volte dire «coraggio!» e per tre volte insistere che si tratta di una parola che viene dal Signore e non da lui (in un solo versetto per tre volte si ripete l’espressione «oracolo del Signore!»). Ciò avviene perché il popolo è in una situazione di disperazione, pensa che non si potrà ricostruire, è convinto che non risorgerà dalle macerie, proprio come accade talvolta a noi, nelle tragedie o nei fallimenti della nostra vita personale e, in questo caso, sociale. Per questo il profeta Aggeo deve annunciare un messaggio impopolare e che sembra utopico a un popolo per cui ormai tutto sembra perduto: «La gloria futura di questa casa sarà più grande di quella di una volta, dice il Signore degli eserciti, in questo luogo porrò la pace» (Ag 2,9).

Aggeo è uno dei profeti della ricostruzione. Per questo è chiamato a incoraggiare i leaders e tutto il popolo a riedificare la casa del Signore e Gerusalemme, che è in rovina. Oggi ci troviamo in un momento simile, non solo in Terra Santa, ma anche nel mondo e nella Chiesa. In questo senso, ci aspetta a tutti una grande missione e per questo, come spero, vi trovate in questa venerabile istituzione: per insegnare e imparare come ricostruire il mondo che vacilla, come curare l’unanimità ferita, come riedificare nella bellezza, nell’armonia e nella cultura, come esse-re costruttori di pace, “artigiani della pace”, per usare un’espressione di Papa Francesco.

In questo contesto di grande disorientamento, dunque, ciascuno per la sua parte, è chiamato ad essere profeta, cioè a dare coraggio, a costruire prospettive di vita. Laddove tutto sembra rinchiudersi in odio e dolore, è chiamato ad aprire orizzonti, e non lasciare credere che non vi sia più spazio ad una speranza, che non ci possa essere una luce.

In concreto significa che nella politica, nell’economia, nella cultura, nelle scienze religiose, nell’esperienze religiose è necessario comprendere cosa significa essere profeti. Non si tratta, cioè, di essere visionari, ma credenti, cioè avere la fede che si deve fare il possibile per investire nello sviluppo, per sostenere un pensiero positivo e illuminato, per evi-tare manipolazioni religiose e anzi promuovere un discorso su Dio che apra alla vita e all’incontro. Un discorso, un linguaggio che possa dare espressione alla realtà vissuta. Senza la Parola di Dio, del resto, cosa possiamo dire, come possiamo interpretare il nostro vissuto?


Superare i traumi, curare le ferite

Affinché, tuttavia, il mio discorso non suoni troppo devoto alle men-ti più laiche tra quelle presenti, vorrei citare un recente articolo di Jessica Stern e Bessel van der Kolk, pubblicato lo scorso 7 dicembre su Foreign Affairs, un giornale di politica estera (The Israeli-Palestinian Conflict and the Psychology of Trauma). La prima è un’accademica statunitense, esperta di terrorismo. Il secondo è uno psichiatra e ricercatore statunitense, esperto nell’area dello stress post-traumatico. Riporto alcuni stralci del loro articolo: «È possibile (…) rinunciare all’impulso di punire indiscriminatamente, è possibile superare l’impulso umano alla rappresaglia? Per farlo è necessario che i leaders siano in grado di raggiungere le comunità divise e di fornire speranza in un momento apparentemente senza speranza. È necessario comprendere che un’eredità di traumi rende gli ebrei israeliani e i palestinesi vulnerabili alla violenza reattiva, portando a un ciclo apparentemente senza fi-ne di spargimento di sangue». Gli autori cercano di offrire una via di uscita: «Per interrompere il ciclo intergenerazionale dei traumi è necessario fermare la violenza e sviluppare l’empatia in coloro che hanno subito il trauma. Qualunque sia la prossima mossa, sarà importante tenere a mente che, dopo essere stati feriti, l’odio può essere enormemente attivante. Mentre il lutto, la reciprocità e la riconciliazione sono processi profondamente complessi e laboriosi. Ma sono l’unica speranza per interrompere la trasmissione intergenerazionale della violenza».

Da questo studio emerge dunque una via possibile per la nostra Terra Santa: la reciprocità e la riconciliazione. Le ferite non possono essere semplicemente cancellate o ignorate con una pace che sia semplicemente “assenza di guerra”. Vi sono delle ferite che rimarranno per sempre “scritte” nel nostro corpo e nel nostro intimo: non possono essere ri-mosse, perché sono cicatrici.

Le ferite non vanno eliminate, ma trasfigurate, e ciò non vale solo a livello di fede, ma anche a livello umano. Non si tratta quindi di dimenticare, come se nulla fosse accaduto. Per guardare al futuro con speranza e in pace, è necessario non dimenticare, non attendere cioè che il problema si risolva da sé, ma fare un percorso di purificazione della memoria, cioè del ricordo del male compiuto e/o subìto, rivederne l’interpretazione alla luce della coscienza attuale, assumerlo per poi superarlo. È necessaria una volontà precisa, un’azione positiva di incontro con il male, ma senza rimanere fermi al male subito e /o commesso, senza che questo resti l’unica e l’ultima parola pronunciata. Le ferite, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli. Creano, infatti, un atteggiamento di vittimismo e di rabbia, che rendono difficile, se non impossibile, la riconciliazione.

Uno psicologo sa bene che ognuno di noi è chiamato a diventare un “guaritore ferito” (cf. H.J.M. Nouwen, Il guaritore ferito. Il ministero nella società contemporanea, Brescia 20109): non basta indagare le cause dei traumi e, nel nostro caso, del conflitto israelo-palestinese, bi-sogna assumerli e trascenderli in un fine, di modo che le ferite possano essere trasfigurate per aiutare gli altri. Ciò vale a maggior ragione per un cristiano. I due discepoli di Emmaus, che se ne andavano da Gerusalemme con il «volto scuro» (Lc 24,17), falliti e feriti, vedono le piaghe gloriose di Cristo, e solo alla luce di queste comprendono le loro ferite e tornano nella Città Santa. Si incontrano con il “Guaritore ferito”, Gesù Cristo, che cura le loro piaghe con le sue piaghe (cf. Is 53,5; 1Pt 2,24). Noi non siamo chiamati solo a indagare le cause delle nostre ferite, quanto piuttosto far sì che esse siano trasfigurate. Anche le nostre ferite personali, sociali ed ecclesiali possono esser trasformate in occasione di maggior comprensione delle ferite degli altri e in strumenti di aiuto e salvezza in loro favore.

Linguaggio

Se ne è parlato e non è un argomento del tutto nuovo, ma forse non è mai stato affrontato in maniera approfondita, almeno dalle nostre parti. In questi ultimi mesi si è parlato molto della disumanità di questa guerra (come del resto tutte le guerre), di disumanità nei gesti compiuti e che le immagini hanno mostrato in maniera inequivocabile. Si sono vi-ste, infatti, e si continuano a vedere immagini che lasciano attoniti per la loro atrocità e per il dolore che suscitano. E dietro a quelle immagini, che parlano più di milioni di parole, ci sono situazioni reali, concrete, tangibili. Non sono, insomma ricostruzioni, fake. Quanto avvenuto nel sud di Israele il 7 ottobre, e quanto sta accadendo ora a Gaza, sono una ferita profonda al senso di umanità, di rispetto della persona. Ho incontrato persone, israeliani e palestinesi, colpite da queste situazioni, profondamente ferite, umiliate, ma anche bisognose di parole di vicinanza, di empatia, di comprensione.

Ho percepito in questi incontri che non bastava assicurare che si sarebbe fatto il possibile, come del resto è stato fatto, per aiutare e soste-nere. Penso ai nostri cristiani rinchiusi nelle nostre chiese a Gaza, che tutto sommato, forse, sono più fortunati di molti altri a Gaza, eppure anch’essi così feriti e colpiti. Non bastava fare arrivare l’aiuto umanitario necessario. Avevano bisogno di una parola che esprimesse vicinanza. Ho capito quanto sia necessario non solo assicurare che i propri uffici facciano la loro parte, ma esserci con una parola di incoraggiamento, ma più ancora di guida e di orientamento, in un contesto che sembra di totale perdizione. Alle immagini di dolore e odio, bisogna rispondere con immagini e parole di speranza e di luce.

Bisogna, insomma, avere il coraggio di parlare. Non solo di dire quello che si pensa, ma anche pensare a quello che si dice, di avere la coscienza che, soprattutto in queste circostanze così sensibili, le parole hanno un peso determinante. In particolare, quanti hanno una responsabilità pubblica hanno il dovere di orientare le loro rispettive comunità con un linguaggio appropriato, che da un lato sia capace di esprimere i sentimenti e la percezione comune, ma dall’altro sia anche capace di orientare il pensiero e, se necessario, limitare la deriva di odio e sfiducia che spesso nei media dilagano con facilità, con parole che sono co-me frecce che colpiscono al cuore. Non si deve inseguire la corrente, insomma, ma saperla orientare, accettando anche la responsabilità dell’incomprensione e della solitudine. È necessario, in breve, di preservare il senso di umanità, innanzitutto nel proprio linguaggio, in privato e in pubblico nell’uso dei social media, che hanno un effetto di-rompente sull’opinione pubblica, e che allo stesso tempo non consentono di dare profondità e prospettive a situazioni così complesse come quella che stiamo vivendo. Il linguaggio crea opinione, pensiero, può alimentare speranza, ma anche odio. Ed è quello che almeno nelle prime fasi della guerra è purtroppo accaduto. Siamo tutti stati invasi da filmati, messaggi, emails, e molto altro che hanno alimentato enorme-mente il sentimento di odio. Abbiamo ascoltato e continuiamo a sentire affermazioni durissime, anche da personaggi con alte responsabilità civili, che negano fatti gravissimi, o che incitano alla distruzione, o che gioiscono pubblicamente alla notizia di morti e violenza. Tutto ciò ha un impatto enorme sull’opinione pubblica.

L’umanità, cioè la necessità di rimanere umani, di conservare il senso di rispetto per la dignità della persona, del suo diritto alla vita e alla giustizia, inizia con il linguaggio.

Un linguaggio violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo, di rifiuto e di esclusione, insomma, non è un elemento accessorio a questa guerra, ma è anzi uno degli strumenti principali di questa e troppe altre guerre. Definire l’altro come “animale”, o comunque usare espressioni che negano l’umanità dell’altro, da qualunque parte esse vengano, è anch’essa una forma di violenza che apre o forse addirittura può giustificare scelte di violenza in molti altri contesti e forme. Sono espressioni che forse feriscono più ancora degli eccidi e delle bombe.

Dio ha creato il mondo con la Parola (“sia’). Anche noi creiamo il nostro mondo con le nostre parole.

Lo abbiamo visto in questi mesi in maniera decisamente sensibile e dura. Ma forse, se facciamo attenzione, in filigrana si poteva vedere anche prima. Quante volte in questi anni bisognava fare attenzione a non usare certe parole in un contesto, che invece erano comuni nell’altro, e viceversa. Ciascuna delle due parti, israeliana e palestinese, aveva un suo vocabolario, una sua narrativa, diversa e indipendente l’una dall’altra. Che non si sono mai incontrate, se non in piccoli circoli ristretti.

Da parte israeliana, ad esempio, il vocabolario ruotava attorno al concetto sicurezza. Dall’altra parte tutto si concentrava su occupazione e giustizia. Sia ben chiaro, sono parole sacrosante, che riflettono una realtà e un bisogno reali e che meritano rispetto. Il problema era che si trattava di narrative indipendenti l’una dall’altra, che non si sono mai incontrate realmente. E ora questo è diventato esplosivamente evidente in questi ultimi mesi.

È necessario quindi il coraggio di un linguaggio non esclusivo. Che anche nel più duro dei conflitti e delle contrapposizioni, mantenga comunque saldo e chiaro il senso di umanità, perché, per quanto la si possa sfigurare con la propria condotta malvagia, restiamo comunque tutti persone create a immagini di Dio, sempre.

È necessario quindi, nel pubblico e nel privato, nei media, nelle sinagoghe, chiese e moschee, avere il coraggio di parole che aprano orizzonti, e non diano pretesto a violenza e rifiuto.

Lo stesso vale per i media, i social media, sempre più determinanti, i luoghi di formazione, come le università, ecc.

Non è questo, in definitiva, il più grande contributo della Chiesa, nella nostra situazione, fornire cioè un linguaggio in grado di creare un mondo nuovo non ancora visibile ma che si manifesta all’orizzonte?

Conflitto spirituale

Quanto detto fino ad ora ci introduce ad un altro tema, anch’esso molto sofferto, eppure così fondamentale in Terra Santa. L’odio profondo, la contrapposizione politica e militare in corso sono un dato evidente. Ma vi è anche una sorta di “conflitto spirituale”, se possiamo chiamarlo così. Non entro ora in disquisizioni teologiche o spirituali, che pure sarebbero interessanti e utili. Non mi riferisco alla lotta tra il bene e il male, come a dire che il bene è da una parte e il male dall’altra, come forse è anche stato detto. Ma è chiaro che l’odio profondo – di cui si è già parlato più volte – e le sue conseguenze di morte e dolore, e le cui immagini fanno il giro del mondo, quello l’odio profondo è una sfida non indifferente per la vita spirituale della Terra Santa, per chi vede nella vita del mondo e delle persone un riflesso della presenza di Dio. Questa guerra intacca in maniera chiara la vita spirituale degli abitanti della Terra Santa. Quanto sta accadendo non può lasciare indifferenti quanti hanno a cuore la vita nello spirito. In Terra Santa fede e religione sono decisivi per la vita delle diverse comunità, cristiani, musulmani ed ebrei. In questo conflitto, dunque, che ha avuto un impatto devastante sulla vita di tutti, qual è stato il ruolo delle fedi e delle religioni?

Il progresso sociale ci ha portato ad avere oggi una coscienza sempre più chiara dei valori essenziali del vivere civile. Il mondo si riconosce sempre di più su alcune poche parole, comuni a tutti: giustizia, uguaglianza, pace, dignità di ogni essere umano, persona, solo per citarne alcune. Gli organismi internazionali, dopo le tragedie del ‘900, hanno prodotto documenti importanti sulle relazioni tra i popoli, anche in caso di conflitti, con leggi internazionali molto chiare. Il dialogo interreligioso a sua volta ha prodotto documenti molto belli sulla fraternità umana, sull’essere tutti figli di Dio, sulla necessità di lavorare insieme per il rispetto dei diritti della persona… Sono tutti frutti di un’attività che considero spirituale, soprattutto l’ultima, che per ovvie ragioni, mi è più vicina.

Eppure, in questo nostro attuale contesto, tutto questo sembra essere lettera morta. Pare, insomma, che le parole dello spirito non abbiano alcuna influenza sulle scelte che si pongono in questo momento. Tutto ciò non può non interrogarci. In Dt 30, 15, Dio dice: “Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male… “Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza”. Dobbiamo prendere atto che si può comunque non scegliere la vita e il bene, e che dobbiamo chiederci e rispondere alla domanda di come porci di fronte a quelle scelte di male e morte.

Bisogna riconoscere, inoltre, che vi è un grande assente in questa guerra. La parola dei leader religiosi. Con poche eccezioni, non si sono sentite in questi mesi da parte della leadership religiosa discorsi, riflessioni, preghiere diverse da qualsiasi altro leader politico o sociale. Spero di essere smentito, ma si ha l’impressione che ciascuno si esprima esclusivamente all’interno della prospettiva della propria comunità.

Ebrei con ebrei, musulmani con musulmani, cristiani con cristiani, e così via. Che ciascuno custodisca e consolidi la narrativa della propria comunità di appartenenza, spesso contro l’altra.

In questi mesi è stato ed è ancora pressoché impossibile, ad esempio avere incontri di carattere interreligioso, almeno a livello pubblico. Religiosi Ebrei, cristiani e musulmani non riescono ad incontrarsi, nemmeno per esprimere le proprie differenze di vedute. Rapporti di carattere interreligioso che sembravano consolidati, come ho accennato inizialmente, sembrano oggi spazzati via da un pericoloso sentimento si sfiducia. Ciascuno si sente tradito dall’altro, non compreso, non difeso, non sostenuto.

Mi sono chiesto più volte, in questi mesi, se la fede in Dio sia davvero all’origine del pensiero e della formazione della coscienza personale, creando così tra noi credenti una comprensione comune almeno su alcune questioni centrali della vita sociale, oppure se il nostro pensiero si formi e si basi su altro. In altre parole, mi chiedo se nelle azioni e nelle parole che uso, temo più Dio oppure la reazione della gente, dei politici, dei media… Nel mio rivolgermi alla mia comunità, ho il coraggio della parresia, dell’orientamento? Apro orizzonti? O mi limito a pesare le parole per non essere di disturbo a nessuno? I profeti di cui parlavo all’inizio, sono solo ricordi del passato?

Non è un tema banale. Direi anzi che sia centrale. Soprattutto in questi contesti di dolore e disorientamento, in un contesto dove la religione ha un ruolo pubblico così rilevante, non si deve mai smettere di chiedersi se e come la fede possa orientare la propria comunità, ad invitarla ad interrogarsi, senza adagiarsi. La fede deve essere conforto, sostegno, ma anche in un certo senso elemento di disturbo. Se la fede si basa su un’esperienza di trascendenza, essa deve anche portare il pensiero a trascendere il momento presente, e aprire i confini di mente e cuore, ad andare oltre.

I credenti, infatti, possono orientare la loro rabbia e il loro dolore nella preghiera, dovrebbero alzare lo sguardo e vedere che Dio alla fine li chiama a guardare l’altro, creato a immagine e somiglianza di Dio. Per un non credente, spesso, è più difficile uscire dalla rabbia, alzare lo sguardo e uscire dalla bolla della concentrazione su se stesso.

Questa guerra è anche uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non potrà essere più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei.

Il mondo ebraico non si è sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara. I Cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non di-visi sul sostegno ad una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati, e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre… insomma dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro. È per me, personalmente, un grande dolore, ma anche una grande lezione.

Partendo da questa esperienza, dovremo ripartire, coscienti che le religioni hanno un ruolo centrale anche nell’orientare, e che il dialogo tra noi dovrà forse fare un passaggio importante, e partire dalle attuali in-comprensioni, dalle nostre differenze, dalle nostre ferite. Non potrà es-sere più un dialogo solo tra appartenenti alla cultura occidentale, c co-me è stato fino ad oggi, ma dovrà tenere in conto le varie sensibilità, i vari approcci culturali non solo europei, ma innanzitutto locali. È molto più difficile, ma da lì si dovrà ripartire.

E si dovrà farlo, non per bisogno o necessità, ma per amore. Perché, nonostante le nostre differenze, ci vogliamo bene, e vogliamo che questo bene trovi espressione concreta nella vita non solo personale, ma anche delle nostre rispettive comunità. Volersi bene, non significa necessariamente avere le stesse opinioni, ma saperle esprimere ed apprezzare, rispettandosi ed accogliendosi l’un l’altro.

Varcare la barriera, ogni oltre speranza

Sono convinto che è su tale cammino che dobbiamo orientare i nostri passi. Affinché la profezia della pace diventi realtà è indispensabile educarci al rispetto, all’incontro, al dialogo, al perdono. Tutti, ebrei, musulmani e cristiani, devono essere innanzitutto testimoni credibili di speranza, perché convinti della bontà di Dio su tutti gli uomini. Senza speranza non si vive. Oggi c’è più paura che speranza. La paura si affronta con le armi della fede e della preghiera. Questo è il momento della speranza. Credo che l’antidoto alla violenza e alla disperazione, da qualunque parte venga, sia creare speranza, iniettare speranza, generare speranza, educare alla speranza e alla pace. La scuola e le università hanno un ruolo chiave in questo: è qui che si deve cominciare a rieducare la gente alla pace e alla non-violenza, cioè a credere, a conoscersi e a stimarsi, e anzitutto a incontrarsi, cosa che purtroppo non avviene né nelle scuole arabe né in quelle ebraiche, se non in rari casi. Essere profeti di pace significa concentrare la nostra attenzione sul dramma di entrambi i popoli, israeliano e palestinese. Dobbiamo imparare ad amare entrambi, a sentirli prossimi e amici. Solo così crolleranno i muri e sorgeranno nuovi ponti, capaci di «un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio» (Francesco, Fratelli tutti, n. 1).

Ascoltando le notizie ci sentiamo smarriti e impotenti. Che cosa potremmo mai fare dinanzi alle grandi potenze, alle strategie geopolitiche globali? In realtà possiamo molto. La nostra missione di pace, oltre che universale, è anche profondamente personale, il che implica un appello pressante alla conversione, affinché diventiamo tutti artigiani di pace, come ha affermato ancora Papa Francesco: «I processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il suo stile di vita quotidiana (…). C’è una “architettura” della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un “artigianato” della pace che ci coinvolge tutti (Fratelli tutti, n. 231). La pace che dobbiamo invocare e costruire come Chiesa è la pace di Gerusalemme, che è lo shalom uni-versale offerto da Cristo risorto nel Cenacolo. Una pace questa che, lungi dall’essere soppressione delle differenze e delle minoranze, tregua o mero patto di non-belligeranza (che sarebbe pur sempre un auspicabile traguardo nelle attuali circostanze!), divenga accoglienza e apertura sincera dell’altro, volontà “ostinata” di ascolto e di dialogo, in cui la paura e il sospetto cedano il passo alla conoscenza, all’incontro e alla fiducia, ove le differenze siano ricchezza e non pretesto di conflitto.

Gli ultimi eventi, come la pandemia, i vari conflitti e i conseguenti squilibri geopolitici che si sono venuti a creare, ci rendono sempre più consapevoli che nessuno di noi è un’isola in questo mondo e che non possiamo vivere da monadi nell’odierno “villaggio globale”, ma «i no-stri piani e sforzi devono sempre tenere conto degli effetti sull’intera famiglia umana, ponderando le conseguenze per il momento presente e per le generazioni future (…). Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme”, perché “nessuno si salva da solo” e nessuno Stato nazionale isolato può assicurare il bene comune della propria popolazione» (Messaggio per la celebrazione della LIV Giornata Mondiale della Pace. La cultura della cura come percorso di pace, 1° Gennaio 2021, n. 6).

[Stare e restare in Medio Oriente sarà perciò sempre di più, per noi cristiani, martirio e profezia: «Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi» (Mt 10, 16). Non possiamo e non dobbiamo trasformarci in lupi o allearci con loro, ma perseverare nello stile evangelico. Il nostro impegno per la vita e la pace degli uomini e delle donne delle nostre terre vive della consapevolezza che non come la dà il mondo Cristo dona pace a noi (cf. Gv 14,27). Gesù non è venuto a portare una pace “borghese”, che si acquista senza difficoltà e che equivale a non avere problemi. Chi non vuole problemi è un condannato a vivere per se stesso e non per l’altro, perché l’altro è il primo “problema” della nostra vita. Cristo è venuto a portare una pace molto più profonda, che implica la croce, morire per l’altro, al fine di ricevere la vita.

Come ho detto, a Betlemme, la notte di Natale: «Noi facciamo fatica, soprattutto oggi, soprattutto qui, a trovare un posto per il Natale nella nostra terra, nella nostra vita, nel nostro cuore. Quella via, aperta da Cristo, rischiamo di perderla tra le strade distrutte, tra le macerie del-la guerra, tra le case abbandonate. Il nostro cuore appesantito può non riuscire a sintonizzarsi con l’annuncio del Natale. Troppo dolore, troppa delusione, troppe promesse mancate affollano quello spazio interiore (…). Quella notte, infatti, e in ogni notte, Dio trova sempre un posto per il Suo Natale, anche per noi, qui, oggi, nonostante tutto, anche in queste drammatiche circostanze, noi lo crediamo: Dio può fare posto anche nel più duro dei cuori.  Se vogliamo dunque che sia Natale, anche in tempo di guerra, occorre che tutti moltiplichiamo i gesti di fraternità, di pace, di accoglienza, di perdono, di riconciliazione. Dirò di più: dobbiamo tutti impegnarci, a partire da me e da chi, come me, ha responsabilità di guida e di orientamento sociale, politico e religioso, a creare una “mentalità del sì” contro la “strategia del no”. Dire sì al bene, sì alla pace, sì al dialogo, sì all’altro non deve essere solo retorica ma impegno responsabile, disposto a fare spazio, non a occuparlo, a trovare un posto per l’altro e non a negarlo» (Omelia della Notte di Natale 2023). C’è uno stile cristiano di stare in Medio Oriente. C’è uno stile cristiano di vivere la guerra. Gesù non è un guerrigliero, come alcuni lo vorrebbero presentare. Non è uno zelota o un teologo della rivoluzione, come Barabba, ma ha portato la vera rivoluzione: non creare il regno di Dio sulla terra, non “annacquare” il regno di Dio nel mondo, ma dargli sale, sapore, senso, a partire dalle realtà divine e celesti. Gesù non è venuto nel mondo per condannare il mondo, ma per salvarlo. ]

In un ambiente segnato da lacerazioni e contrasti, possiamo diventa-re, come Chiesa, luogo ed esperienza della pace possibile. Se abbiamo poca possibilità di sedere ai tavoli internazionali, abbiamo però il dovere di edificare comunità riconciliate e ospitali, aperte e disponibili all’incontro, autentici spazi di fraternità condivisa e di dialogo sincero. Le nostre pur legittime distinzioni, se non vanno negate o confuse, non devono mai separarci o opporci. Non si tratta di favorire un ecumenismo di facciata o di comodo, ma di dare forza a quell’ecumenismo vissuto, fatto d’incontri, di collaborazione, di reciproco sostegno e di sofferenza condivisa, cui con tanta convinzione ci invita Papa Francesco. Vi è un ecumenismo della sofferenza. Ed è solo partire dalla comunione nella sofferenza che possiamo capire l’altro e andare incontro a lui.

Inviati a essere testimoni di un modo e di un mondo “altro”, abbiamo il dovere di annunciare, con le parole e con la vita, il Vangelo della pace. Ci troviamo per questo spesso a un bivio, chiamati a scegliere tra la necessaria denuncia della violenza e del sopruso – sempre perpetrati a danno dei più deboli e innocenti –, e il rischio di ridurre la Chiesa ad “agente politico” o addirittura a partito o fazione, dimenticandone la vera identità ed esponendola a facili strumentalizzazioni. Papa Francesco ci ha recentemente ricordato che «il vero compito della Chiesa non è far cambiare i governi, ma far entrare la logica del Vangelo nel pensiero e nei gesti dei governanti».

Ciò non significa, ovviamente, tacere di fronte alle ingiustizie o rin-chiudersi nell’angelismo o nel disimpegno. L’opzione preferenziale per i poveri e i deboli, però, non fa della Chiesa un partito politico. Prendere posizione, come spesso ci è chiesto, non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favo-re di quanti soffrono e non in condanne contro qualcuno.

Per concludere, siamo chiamati tutti a varcare la barriera, ogni oltre speranza. Solo così la nostra vita non sarà spesa invano. Se vi è chi continua a ostinarsi nell’arte della guerra, noi saremo ancora più osti-nati nell’arte di mettere pace, ci specializzeremo nell’essere guaritori feriti, costruttori di pace, ricostruttori di quel tempio santo che è l’uomo: «In questo luogo porrò lo pace» (Ag 2,9).

L'intervento del

Card. Pierbattista Pizzaballa

Card. Pierbattista Pizzaballa

Patriarca di Gerusalemme dei Latini

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