Dalla medicina alla pace in Terra Santa. Il Cardinale Pizzaballa nella sua prolusione si è soffermato sull’impatto che «ha avuto e sta avendo sulla popolazione» il 7 ottobre in Israele, cercando di offrire uno «sguardo diverso, sull’individuazione di alcune possibili vie per superare l’impasse nel quale ci troviamo». Secondo il Patriarca, «la grave crisi in corso ha spazzato via in poco tempo anni di dialogo interreligioso, di faticosa costruzione di relazioni tra le diverse comunità religiose e sociali, e ha anche smantellato l’illusione di facili prospettive di pace».
Ma come uscire da «quest’orribile pantano» da cui pare impossibile venirne fuori? Per il Cardinale Pizzaballa, un «grande incoraggiamento» arriva dai «profeti dell’Antico Testamento» o da quella che definisce «dimensione profetica», l’essere cioè capaci di visione, di orientare, di dare uno sguardo il più possibile libero sulla vita, rimanendo sempre ancorati alla Parola di Dio. In concreto essere profeti non significa «essere visionari, ma credenti, cioè avere la fede che si deve fare il possibile per investire nello sviluppo, per sostenere un pensiero positivo e illuminato, per evitare manipolazioni religiose e anzi promuovere un discorso su Dio che apra alla vita e all’incontro».
C’è anche un’altra guerra in corso che minaccia le vie della pace: quella del linguaggio. «Quanti hanno una responsabilità pubblica devono orientare le loro comunità con un linguaggio appropriato, che da un lato sia capace di esprimere i sentimenti e la percezione comune, ma dall’altro sia anche in grado di indirizzare il pensiero e, se necessario, limitare la deriva di odio e sfiducia che spesso nei media dilagano con facilità, con parole che sono come frecce che colpiscono al cuore». Ecco perché, ha avvertito il Patriarca, «è necessario preservare il senso di umanità, innanzitutto nel proprio linguaggio, in privato e in pubblico nell’uso dei social media, che hanno un effetto dirompente sull’opinione pubblica», in quanto un «linguaggio violento, aggressivo, carico di odio e di disprezzo», non è un «elemento accessorio a questa guerra, ma è anzi uno degli strumenti principali di questa e troppe altre guerre».
Serve, pertanto, «un linguaggio non esclusivo, che anche nel più duro dei conflitti e delle contrapposizioni, mantenga comunque saldo e chiaro il senso di umanità». Il vero «antidoto alla violenza e alla disperazione» consiste nel «creare, iniettare, generare speranza» ed «educare alla pace». In tal senso, «la scuola e le università hanno un ruolo chiave: è qui che si deve cominciare a rieducare le persone alla pace e alla non-violenza, cioè a credere, a conoscersi e a stimarsi, e anzitutto a incontrarsi». Non si tratta di favorire «un ecumenismo di facciata o di comodo», ma «di dare forza a quell’ecumenismo vissuto, fatto d’incontri, di collaborazione, di reciproco sostegno e di sofferenza condivisa, cui con tanta convinzione ci invita Papa Francesco».