NEWS | geopolitica

La Turchia e il suo posto nel mondo: cosa cerca Erdogan nel G20 di Roma

29 ottobre 2021

La Turchia e il suo posto nel mondo: cosa cerca Erdogan nel G20 di Roma

Condividi su:

Ambiente, crescita e Afghanistan sono i punti al centro dell’agenda turca al prossimo G20 che si apre a Roma. La Turchia ha ratificato pochi giorni fa l’accordo di Parigi sul clima, ma chiede di essere trattato come un paese “in via di sviluppo” per poter accedere ai fondi internazionali per la transizione energetica, dato che più di un terzo del suo fabbisogno è soddisfatto dal carbone. La modernizzazione del paese - alla base del consenso a Erdoğan in questo ultimo ventennio – oggi segna il passo, scontrandosi con il bisogno di investimenti e la cronica mancanza di risorse energetiche. Al tempo stesso, grazie ai droni, l’export di armi turche corre e permette oggi alla Turchia di presentarsi come un attore decisivo su diversi scenari, dal Caucaso alla Libia, dall’Africa all’Afghanistan. Diciannovesima economia mondiale, con una demografia favorevole, un sistema dell’istruzione moderno e un reticolo di medie e piccole imprese – le “tigri anatoliche” – assai dinamico, la Turchia sembra avere le carte in regola per scalare il ranking delle potenze globali, anche se si scontra con alcuni limiti strutturali di cui il forte deprezzamento della lira turca di questi mesi è un sintomo eloquente, benché abilmente celato dalla sua dirigenza.

Soprattutto la Turchia che si presenta al G20 è ancora alla ricerca di un suo posto nel mondo. Al di là delle performance economiche, che hanno quintuplicato il PIL pro-capite in venti anni, resta problematica la collocazione del paese in uno scenario globale senza più riferimenti stabili. La Turchia tende per questo a sfuggire alla comprensione del grande pubblico ma anche di molti analisti. Lo si vede, ad esempio, dai diversi paradigmi applicati per leggerne le mosse nel tempo: agli inizi del nuovo secolo, nel clima post-11 settembre, è stato l’Islam la grande chiave interpretativa, sostituito oggi dal “neo-ottomanismo” dopo che la nuova assertività della Turchia - con il contestuale ripiegamento occidentale dal Mediterraneo “allargato” – sembra paventare l’avvento di un’egemonia turca nell’area. Ma lo testimonia anche la parabola stessa del suo leader, Recep Tayyip Erdoğan, celebrato agli inizi del nuovo secolo come paladino di un Islam democratico e oggi esecrato come uno dei peggiori dittatori. Tutto ciò ha indubbiamente molto a che fare con i mutamenti impressi dal presidente turco alla sua politica, ma non tutto si spiega con la sua forte personalità, così come molte delle sue scelte dipendono anche dal contesto interno e internazionale in cui si muove oggi il grande paese anatolico.

Forse, più della dottrina sulla “profondità strategica” delineata dall’ex Ministro degli Esteri Davutoğlu, serve un po’ più di “profondità storica” per capire oggi la politica di Ankara. Non si può ignorare, infatti, l’enorme portata di quella “rivoluzione geopolitica” che è stata la dissoluzione del blocco sovietico, un rivolgimento capace di trasformare la Turchia da paese di frontiera, importante ma tutto sommato periferico, a “pivot” di un vasto spazio tra Asia e Occidente, una situazione nuova che permette ad Ankara di utilizzare al meglio gli atout che gli derivano dalla sua posizione. L’idea di avere una “centralità” nello scenario globale, più delle velleità di stampo neo-ottomano, costituiscono oggi la bussola della politica estera turca.

In uno scenario che tende confusamente verso un multipolarismo senza gerarchie precise, la Turchia si è presa il proprio spazio, interpretando la sua “centralità strategica” innanzitutto come “riscatto” per riguadagnare il rango perduto - un riflesso inconscio presente nelle fibre profonde del paese - cercando poi di riempire i vuoti lasciati dal progressivo ritiro occidentale nei diversi “corridoi” geopolitici che si sono aperti verso i Balcani, il Medio Oriente, il Caucaso, l’Asia Centrale, l’Africa. Direttrici nelle quali l’azione turca deve, però, alla fine fare i conti con controparti di peso: Cina, Russia, UE. Ciò spiega l’apparente schizofrenia di una politica che oscilla tra affermazioni nazionalistiche, velleità di “grandeur” e bilateralismi ad assetto variabile, segnati da “collaborazioni competitive” con i partners di turno, come si vede con l’Europa sui migranti o con la Russia nello scenario siriano e afghano. Anche la recente decisione di espellere alcuni ambasciatori occidentali dalla Turchia, poi subito rientrata, evidenzia una sostanziale incertezza nella politica turca. Pesano poi le questioni interne: la scadenza del centenario della Repubblica di Turchia nel 2023 a cui Erdoğan vuole arrivare nelle vesti di nuovo “padre dei turchi” (atatürk), ma anche il fatto che il suo governo – a differenza del passato – necessita dell’alleanza con il partito iper-nazionalista (MHP) degli ex “lupi grigi”.

Tali coordinate spiegano un paese guidato da un difficile mix di “sovranismo islamico”, nazionalismo turco e credo globalista. A orientare Ankara sono nostalgie “neo-ottomane”? Riesumare le memorie storiche è indubbiamente un’efficace strategia identitaria, ma se la Turchia avesse veramente tali ambizioni dovrebbe mostrare un’attitudine inclusiva e un interesse a interloquire in modo costruttivo con le diverse controparti, invece di mostrare i muscoli ed essere insofferente verso ogni forma di pluralismo. Nonostante tutto, nel complesso multilateralismo che sta prendendo forma in questi mesi, la Turchia è un attore imprescindibile, lo si vede in Libia come in Afghanistan o nel Corno d’Africa. A noi europei risulta un partner che lascia talvolta un po’di amaro in bocca, tuttavia è significativo che il Ministero degli Esteri turco auto-collochi la Turchia tra i paesi “europei” del G20. Di questo è bene tenere conto, per non abbandonare del tutto un paese che è il più orientale dei paesi europei e il più occidentale dei paesi musulmani. Come ha affermato qualche tempo fa il Presidente del Consiglio Draghi, con la Turchia “bisogna essere franchi nell’espressione della visione della società ma pronti a cooperare per gli interessi del Paese. Bisogna trovare l’equilibrio giusto”.

Un articolo di

Giorgio Del Zanna

Giorgio Del Zanna

Docente di Storia Contemporanea - Università Cattolica

Condividi su:

Newsletter

Scegli che cosa ti interessa
e resta aggiornato

Iscriviti