"La sorpresa di papa Francesco" si intitolava un libro di Andrea Riccardi pubblicato a ridosso dell’elezione di Jorge Bergoglio nel 2013. Dieci anni dopo la sorpresa non c’è più, ci siamo persino “abituati” a questo papa, al suo stile, al suo modo di comunicare, alle sue scelte. Ma la novità resta una chiave decisiva per descrivere chi è, che cosa fa e quale posto occuperà nella storia. Papa Francesco, infatti, vive e sa di vivere non “in un’epoca di cambiamento” ma “un cambiamento d’epoca”, espressione con cui esprime la vastità, la profondità e la rapidità del cambiamento storico in cui tutti siamo immersi ma di cui spesso non abbiamo una percezione piena.
In un certo senso tutti i papi dell’età contemporanea sono papi che vivono un “cambiamento d’epoca”. Quantomeno a partire da Giovanni XXIII, che sorprese il mondo convocando il Concilio Vaticano II con l’obbiettivo dell’“aggiornamento” della Chiesa. Anche Benedetto XVI – che qualcuno vorrebbe trasformare nella bandiera di una “conservazione” peraltro piuttosto confusa – ha sorpreso tutti con un gesto “rivoluzionario”: la rinuncia al ministero petrino, le cosiddette dimissioni, cui seguì la figura inedita del papa emerito e tanto altro. Tutti i papi contemporanei, insomma, ci sorprendono perché l’immagine del papa che continuiamo a conservare dentro di noi resta più o meno sempre la stessa, mentre il papa è una figura storica, costretto dagli eventi a vivere in prima linea e a sperimentare il cambiamento prima e più di tutti. Ma con Francesco la sorpresa è stata ancora più forte: questo papa, infatti, non sta solo realizzando tante novità ma è lui stesso una grande novità, a partire dalla sua provenienza, primo papa non europeo da tredici secoli.
Guardando Francesco si capisce che la Chiesa è oggi spinta, dal suo compito primario ed irrinunciabile di annunciare il Vangelo, a entrare in mondi sconosciuti. È già accaduto con i primi discepoli, ebrei chiamati ad evangelizzare i “non circoncisi” e cioè i pagani, o con la grande missione ad gentes dopo il Concilio di Trento. Accade di nuovo oggi e la Chiesa cattolica è impegnata in una vasta “delocalizzazione”, con una crescita soprattutto in Africa, in alcune aree dell’Asia e una presenza complessivamente stabile in America latina. Ma anche mondi che si credevano conosciuti stanno diventando sconosciuti: quello occidentale sta diventando sempre più estraneo alla Chiesa, come è accaduto in Europa ai tempi delle invasioni barbariche, ma questa volta i barbari non vengono solo da fuori, non sono solo gli immigrati: sono anche gli autoctoni, siamo noi stessi, investiti da un profondo mutamento antropologico.
Tutto ciò pone alla Chiesa molte sfide, anzitutto culturali. È in corso una sorta di de-culturazione del cristianesimo - e cioè di allontanamento dal contesto culturale in cui si è più sviluppato per secoli – e di nuova inculturazione – e cioè di immersione in culture finora “contaminate” dal cristianesimo in modo più limitato. Accade anche alle altre Chiese: la comunione anglicana è oggi scossa dalle divisioni su questioni come l’omosessualità e altre. Ecco perché il programma di una “Chiesa in uscita” è destinato a restare valido ancora a lungo, non perché l’abbia deciso papa Francesco ma perché è la storia ad imporlo. Molti aspetti di questo pontificato si capiscono solo in tale orizzonte. A partire dalla scelta straordinariamente innovativa che Francesco ha compiuto incontrando - la prima volta dopo mille anni – il patriarca russo Kirill. O da quella dell’accordo con il governo di Pechino nel 2018, che si rivela ogni giorno più saggia mentre si levano i venti devastanti di nuova guerra fredda. Chi avrebbe immaginato il ritorno della guerra in Europa? Eppure, questo papa si è trovato anche a dover navigare nelle acque agitate della tragedia ucraina provocata dall’aggressione russa.
Trovarsi in un’“epoca di cambiamento” spiega anche la prudenza di Bergoglio - per molti sorprendente e in contrasto con il cliché del papa progressista - su tante questioni che dividono, dal celibato ecclesiastico al sacerdozio delle donne. Così come spiega la prospettiva della sinodalità, difficile da praticare ma necessaria quando i problemi non possono essere risolti né con decisioni autoritarie né seguendo il mainstream. Sinodalità vuol dire comunione, il ritrovarsi della Chiesa in assemblea, uno stile conciliare permanente, insomma quell’ “essere insieme” che permette ai cristiani di restare fedeli al Vangelo e al tempo stesso fare scelte originali, innovative, in sintonia le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne d'oggi… Pure il difficile rapporto tra il papa e la Curia romana rientra in questo contesto. Francesco ha preso le distanze dalla Curia fin dal primo giorno, in obbedienza a quanto avevano chiesto i cardinali nel confronto che ha preceduto il conclave del 2013. Ma prendere le distanze non risolve il problema, per certi versi lo complica. Oggi, il papa ha bisogno di grande libertà personale per rispondere a tanti input diversi – i tanti palloni che arrivano in porta dalle direzioni più imprevedibili, per usare le sue parole. Ma ha anche bisogno di collaboratori che lo aiutino nell’“ordinaria amministrazione”: la Chiesa, infatti, necessita pure di un governo quotidiano saggio e paziente, per incoraggiare chi affronta nuove sfide, attendere chi è rimasto indietro e sostenere tutti.