Thomas Mann è senza dubbio, l’autore per eccellenza della cultura tedesca. Un artista che però può essere compreso solo tenendone presente la geografia e l’epoca da cui proviene: la Germania e l’Ottocento. Mann, infatti, nasce nel 1875 a Lubecca, nella Germania di Hesse, di Rilke, di Wagner, di Nietzsche, Paese allora rappresentativo del fermento intellettuale che da lì a poco avrebbe alimentato i capisaldi del secolo che avanzava. Suo padre, appartiene a una famiglia di commercianti, e raffigura tutto ciò che di solito, in modo stereotipato, viene attribuito al mondo tedesco: l’ordine, la disciplina, la dedizione alla produttività, un certo tipo di rigore. Tutte caratteristiche che di volta in volta si ripresentano nell’opera di Mann, a partire dalla limpidezza del pensiero e della prosa. Ma Mann non è solo questo. Al suo interno, infatti, c’è un «crinale», un «confine che arriva da un altro mondo», l’America Latina, dove è nata e cresciuta sua madre. Un mondo che gli lascia in eredità un «germe di irriverenza», allegria, quasi di follia e di non adattamento alle regole. «Due elementi che convivono in Mann», ha chiarito Manzon, e «si danno forza l’un l’altro»: la regola e la ribellione, con la prima che diventa creativa quando c’è qualcosa che la spinge ad andare sul confine e viceversa.
C’è di più. Mann è anche uno degli scrittori che si è maggiormente concentrato sulla questione del tempo. Un aspetto che lo avvicina ad altri due pilastri della letteratura novecentesca, Joyce e Proust. Ma se per questi il tempo è durata soggettiva, coscienza del soggetto (Joyce, con il flusso della coscienza dell’Ulisse, Proust, con il gioco della memoria), per Mann è quello dove s’incontrano «tempo soggettivo» e «cultura», «spirito dell’epoca» e «dimensione quotidiana».
Un universo che i suoi libri, soprattutto quelli brevi, riescono a tenere bene insieme. Nascono tutti, cioè, da uno stridore tra un soggetto che sente un mondo, lo attrae, e un soggetto che invece lo respinge, riuscendo così ben a rappresentare l’opposizione che sempre agiterà Mann e sarà forse il principale motore della sua scrittura.
Tonalità che nelle pagine di Tonio Kröger ritornano puntualmente. Basta guardare il modo in cui nel primo capitolo sono introdotti i protagonisti: da una parte, Hans, emblema della perfezione con i suoi “biondi occhi azzurrini”; dall’altra Tonio, simbolo della mollezza con le palpebre grevi e gli occhi spauriti. «Questo libro riassume quei temi universali che sono una costante nella produzione di Mann». Non solo, Tonio Kröger porta con sé «l’energia della giovinezza», il suo spirito vivo, di cui ne sa ben catturare le singole sfumature di «sentimenti contrastanti» che l’attraversano. Un romanzo costruito su un’architettura di «simmetrie e opposizioni», un «gioco di rimandi», un grande viaggio e una rincorsa verso quello che è poi il fine ultimo del romanzo, ossia la lettera finale di Tonio a Lisaweta sul senso dell’essere artista. Infatti, ha detto Manzon, «cambiano i confini delle cose, cambiano i paesi, cambiano le epoche ma ci sarà sempre un mondo solido borghese, stabile, familiare». Come pure, «ci sarà sempre un abisso dove le cose si distruggono, non hanno più un ordine, dove tutto diventa confuso, vertiginoso». Un modo, insomma, per dire che l’arte non è frutto di dissolutezza ma necessita di due opposti. Questo perché ogni opera, così come le grandi decisioni della vita, nascono dal non sentirsi mai a proprio agio, dallo stare scomodi in una situazione. Ed è proprio dalla rimessa in discussione che l’arte prende forma. Perciò, quale espressione migliore per definire la postura dell’artista se non quella coniata dallo stesso Mann di «borghese sviato»?
Il prossimo appuntamento della “Scuola di lettura” si terrà giovedì 27 marzo, alle ore 17.30, con il saggista, scrittore e critico letterario Eraldo Affinati che parlerà di Casa d’altri di Silvio D’Arzo.