Nella foto al centro Luciano Corradini durante il corteo dei “ludi matriculares” vestito da Pontifex Maximus (1957)
La “leggenda agostina” racconta di una intensa quanto originale goliardia in quegli anni. Lei poi fu Pontifex Maximus nel 1957. «Gli stessi “anziani” collaboravano a loro modo con segnali “educativi”, organizzando la settimana dei ludi matriculares, “rito” giocoso e garbatamente dissacrante, con cui si cercava di conoscersi e di inserirsi tutti in un “mito” comune, quello di una vita intelligente e amichevole, critica e divertente, formativa, ma non bacchettona. La giocosità goliardica, che saccheggiava la cultura classica mescolandola con le vicende universitarie note agli anziani detentori dei segreti dell’istituzione, costringeva le matricole a scontrarsi, a sopportare, a riconoscere regole e gerarchie, anche le più buffe e strampalate, per scoprire quegli aspetti della vita collettiva e della personalità di persone che altrimenti se ne sarebbero state nascoste sotto la banalità del linguaggio quotidiano».
L’allegria si univa alla maggior conoscenza dei compagni di collegio. «Il “rito di passaggio” dei ludi, come quelli degli esami, delle bevute, delle cantate e delle suonate con l’armonica (“Il cacciatore nel bosco…”), servivano proprio per sciogliere le riserve e per immergere i nuovi arrivati in una sorta di fiume Giordano, in cui doveva crescere e rinnovarsi proprio l’agostinità, quello spirito e quel clima che, con parola dotta, possiamo definire la paideia dell’Augustinianum.
Da pontefice Luciano I “emanai” l’enciclica Casti Pototschgnichi sub alta tirannide e, al termine dei ludi, “battezzai” con una caraffa d’acqua le matricole d’allora, fra cui Tiziano Treu e i due inseparabili Romano Prodi e Ugo Tori, che con i loro cognomi mi davano motivo d’insultare garbatamente le matricole. Mentre l’”ordinario castrense” don Pietro Nonis, poi vescovo di Vicenza, dotato di un paio di forbici al posto della croce pettorale, minacciava le matricole (“mea utar castrensi potestate”), e le benediceva con la formula “nubes, procellae, tempestates descendant super vos et maneant semper”».
Ma c’erano anche momenti di crescita e di confronto. «Ricordo le lunghe chiacchierate fatte dopo cena, magari dopo una passeggiata in via Moriggi e una cantata sotto le finestre del Marianum. Si raccontava, si discuteva, si cercava di scavare, là dove si annidano le speranze e le paure, dove si tenta di dare un volto, un significato, un’intenzionalità alle persone, ai compagni e ai professori, ma anche a tutte le figure importanti del Paese, a cominciare da quella ragazza là, con cui si era iniziato un discorso. Con la mia dura da oltre mezzo secolo. Come sarebbe stato il nostro futuro?».
Come considera quegli anni con il senno di oggi? «Se i sogni, i propositi e i progetti che si facevano, magari confidandosi con gli amici più vicini, erano come ipotesi da verificare o falsificare, ora siamo in grado di considerare la vita successiva a quegli anni come una sorta di esperimento, e di valutare quanto si è realizzato di quelle ipotesi. Ci siamo sparpagliati nelle professioni, in Italia e all’estero: c’è chi si è sposato e chi è diventato vescovo, chi ha molti figli e chi molti quattrini, chi insegna in una scuola media e chi governa l’Europa, chi ha conservato la fede, chi l’ha trovata e chi vive nel dubbio. Le vicende della vita possono aver lasciato, degli anni del collegio, una traccia visibile in alcuni, invisibile o addirittura rimossa e cancellata in altri. Per me si è trattato di un’esperienza di quelle che “imprimono il carattere”. Ho pubblicato un diario dal titolo “A noi è andata bene. Famiglia, scuola, università, società in un diario trentennale” (Città Aperta, Troina 2008). Sono fotogrammi che servono a documentare, fra l’altro, il “lascito dell’Augustinianum”».
E la vita oltre il collegio? «Frequentavamo abbastanza assiduamente le lezioni. Qualcuno di noi s’impegnava a fare le dispense dei corsi universitari. Si trattava di prendere appunti e di sistemarli “a caldo”, dopo ogni lezione, per offrirne poi il frutto agli studenti prima degli esami. Io m’impegnai per Storia romana e, negli anni successivi, per Storia medievale, Filosofia teoretica, Filosofia morale e Storia della filosofia medievale.
Il sabato pomeriggio, molto spesso Agazzi ed io andavamo a portare ad alcune vecchine della periferia milanese i buoni acquisto della San Vincenzo. Al ritorno si passava da Piazza Duomo, dove abitava monsignor Olgiati, allora professore di Storia della filosofia, che s’interessava dei nostri studi e dei nostri percorsi di vita, chiamandoci “pinucci della Santa Infanzia”. Fra questi pinucci c’era anche Giovanni Reale, col quale nel 1956 facemmo due soggiorni estivi di studio in Germania, che io mi pagai coi proventi della produzione artigianale delle dispense (si andava a stampare nella Litografia Gozzadini, in via Santa Sofia). Ricordo anche che facevo parte del gruppo missionario, guidato prima da Giancarlo Brasca, poi da Giovanni Ancarani. E tre pomeriggi la settimana davo lezione a tre ragazzi di scuola media, sia “per arrotondare”, sia per imparare a parlare coi ragazzi, dato che mi preparavo all’insegnamento».
Nei suoi anni universitari era rettore padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica. «Fra i molti ricordi che si affollano alla mente, non posso dimenticare i mercoledì gemelliani. Dal collegio Augustinianum un buon gruppo di volenterosi, anche per l’incoraggiamento del direttore don Mario Giavazzi, andava nell’aula Manzoni, per ascoltare le conferenze che, per un certo periodo ogni mercoledì, il rettore Gemelli faceva per noi studenti. Ricordo che, in una di queste “passeggiate di trasferimento”, una volta che si arrivò in ritardo, ci imbattemmo proprio nel “Magnifico” che arrivava su una sedia a rotelle, spinta da un fedele bidello. Lo guardai con un misto di venerazione e di timore, perché lo sapevo nume tutelare e padre fondatore della nostra università, oltre che eponimo del collegio. A dir la verità, avevo visto anche una sua caricatura, sul “papiro” che gli anziani benignamente ci consegnavano al termine dei “ludi matriculares”, il 7 dicembre, per accoglierci nella Consorteria alma goliardica augustinianea, l’associazione di cui non era elegante citare la sigla in presenza delle “marianne”».
Quali temi trattava Gemelli in queste “conferenze del mercoledì”? «Sua Eccellenza (questo titolo gli spettava come presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) ci parlava da protagonista della vita universitaria, dandoci consigli e incoraggiamenti sul nostro “mestiere” di studenti, citando qualche episodio della sua attività di “defensor fidei”, impegnato su molti fronti della vita sociale e istituzionale. Tra l’altro fu membro e presidente di sezione del Consiglio superiore della pubblica istruzione, divenuto nel ’74 Consiglio nazionale della PI, che mi sarebbe poi capitato di presiedere, dal 1989 al 1997. Mi è restata impressa una sua frase, riferita in particolare alla sua verve di polemista su riviste e giornali: ”Io sto molto attento e, quando ci vuole, pesto!”. Il gesto della mano gli procurò un applauso fragoroso. Del resto, lo si applaudiva spesso, talora con qualche esagerazione giovanile, quasi per liberarsi dal peso della sua grandezza e della sua autorevolezza».
Ma non a tutti era simpatico padre Gemelli. «La sua polemica con tutta la cultura moderna, in nome del Medioevo cristiano, faceva dire a Gustavo Bontadini, l’indimenticabile teoreta della Cattolica, che Gemelli aveva scarsa disposizione al dialogo, alla dialettica e alla mediazione. La più mite ma non meno lucida Sofia Vanni Rovighi notava che le forti personalità come la sua hanno, insieme a grandi qualità, anche grandi difetti. Non sapeva che a Leonardo Ancona, suo successore alla cattedra di psicologia, che, per mitigare il suo maschilismo, gli citava l’intelligenza della Vanni, Gemelli rispose, tra il serio e il faceto: “Lei non è una donna, ma un uomo: vorrei studiare il suo sistema endocrino!”».
Ha qualche ricordo più personale di padre Gemelli? «La cosa che ricordo più volentieri del grande Gemelli è la frase manoscritta posta sotto l’immagine di Gesù del Poliaghi, che dopo la discussione della tesi si consegnava ad ogni laureato della Cattolica, e che io ho appeso vicino alla mia scrivania: “Ricordando il giorno della tua laurea, ricorda pure che l’Alma Mater, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, alla quale hai appartenuto, ti ha insegnato come nella vita, nella professione e negli studi devi servire il Regno di Cristo Signore nostro. Il tuo Rettore, fra Agostino Gemelli ofm “. Questo Regno non è di questo mondo, ma comincia di qua».
Ma una volta lei è fuggito davanti al Padre. «Si, ero “fagiolo”, camminavo al piano delle aule, con una mano appoggiata sulla spalla di quella compagna di corso che sarebbe poi divenuta nonna dei nostri dieci nipoti. Improvvisamente sbucò da un angolo del corridoio la carrozzella del Padre. Ci guardò da lontano, alzò il bastone con cui di solito si aiutava a compiere quei pochi passi che i postumi del trauma gli consentivano, e ci disse con voce imperiosa: “Voi due!”. Ci guardammo sgomenti e svicolammo giù per le scale, per timore, chissà, di dovere rendere conto di una confidenza forse da lui ritenuta sconveniente. Può anche darsi che ci volesse semplicemente parlare da professore e da padre. Ma in noi prevalse il timore e probabilmente perdemmo l’occasione storica di parlare con lui».
Un’occasione persa che forse solo la nomina ad “Agostino dell’anno” 2006 ha potuto compensare in Luciano Corradini e in sua moglie Bona.