È un sabato pomeriggio di fine novembre, alla Barona Sporting Club, alla periferia di Milano: ragazzini con enormi borsoni a tracolla e genitori al seguito vanno e vengono. Sui campi di gioco si affrontano squadre di diverse categorie. Il fischio di un arbitro. Le grida di un tifoso. Il tonfo di un calcio sul pallone. Il sole scalda ancora l’aria già invernale di un tipico giorno di festa italiano.
Noi siamo qui, per una squadra in particolare: la Real Refugees, una piccola internazionale africana. Fondata da un’associazione intitolata alla memoria di un docente molto amato, il professore Francesco Realmonte, che per tanti anni ha insegnato diritto civile all’Università Cattolica e dal programma “Cattolica per lo sport”, la formazione è composta da rifugiati e richiedenti asilo, ospiti nei centri di accoglienza di Milano, provenienti da diversi paesi africani: Uganda, Camerun, Senegal, Gambia, Eritrea.
Questo pomeriggio i Real Refugees, in verde e nero, affronteranno i Qsd SS di Magenta in una partita del campionato provinciale organizzato dal Centro Sportivo Italiano. Si gioca in 7, categoria Open (cioè, senza limiti di età per i giocatori). I pronostici sono favorevoli ai padroni di casa: gli avversari, in divisa arancione e nero, sono ultimi in classifica.
«Abbiamo cominciato, partecipando per caso, a un incontro per beneficenza allo Juventus Stadium di Torino, lo scorso anno. Ma ci siamo accorti che giocare faceva bene ai ragazzi e quest’anno abbiamo provato a iscriverci al campionato per dilettanti», racconta Giovanni Realmonte, figlio del giurista, presidente dell’Associazione e avvocato, che nel frattempo è arrivato al campo.
«Sportivamente, diciamo che dobbiamo ancora crescere: perdiamo facilmente il controllo. Ma, sul piano umano, è un’esperienza molto gratificante. Credo lo sia per loro quanto lo è per me», aggiunge.
«Vale a dire?», domando.
«Fino ad ora nell’associazione mi limitavo a tenere qualche discorso agli eventi pubblici - risponde -. Ora con mio fratello ogni sabato pomeriggio giriamo la provincia. Li accompagniamo ovunque, li sosteniamo, viviamo insieme vittorie e sconfitte».
Il capitano dei Real Refugees è Bubacarr Joof detto Buba, un tipo alto e magro. Si toglie le cuffiette dalle orecchie, si volta e sorride. «Oggi possiamo vincere», azzarda guardando il rettangolo di gioco attraverso la rete che lo cinge e dove nel frattempo se ne vanno anche gli ultimi calciatori dell’incontro che si è appena concluso. E poi, più prudente, conclude: «Se verranno tutti…».
Ora il sole tramonta dietro i palazzoni popolari che stanno attorno al centro sportivo. Il freddo comincia a farsi sentire. L’allenatore Fadi Albitar, siriano ex giocatore professionista, arrivato in Italia per laurearsi all’Università Cattolica in Scienze motorie (una storia che abbiamo già raccontato) fa schierare i convocati a bordo campo. Si corre avanti e indietro. Prima con le ginocchia al petto, poi sforbiciando su lato e poi sull’altro. Qualche passaggio con la palla. Si fa la conta. Purtroppo, il portiere non si è ancora fatto vedere. Ma bisogna iniziare. Pazienza, Danilo Moussa, che di solito gioca a centro campo, si mette tra i pali.
Il match
Adesso l’arbitro fischia il calcio d’inizio. Comincia il primo dei due tempi da 25 minuti in cui è divisa la partita.
I Real Refugees sembrano avere in mano il gioco. Fanno girare la pala, attaccano. Al 14esimo Touray Lamin si allunga sulla fascia destra, dribbla un difensore, tira: la palla fa una parabola perfetta, supera l’area di rigore e colpisce l’incrocio dei pali, ma rimbalza fuori. Niente da fare. Il gioco riprende e, secondo le regole non scritte ma universalmente efficaci del calcio a tutti i livelli, pochi minuti dopo passano in vantaggio i magentini, con una conclusione magistrale del capitano, Davide Garavaglia, maglia n.7, che finisce sotto la traversa ed entra.
«Calma ragazzi, la partita è ancora lunga», grida Fadi ai suoi.
Ma non c’è nulla da fare. Il campo di gioco sembra un piano inclinato che pende da una parte sola: quella verso la porta difesa da Moussa.
Al 24esimo i QSD Ss raddoppiano. Stavolta a segnare è Stefano Padovan, maglia n.14, su un’azione scaturita da un errore a centro capo dei Real Refugees. Buba si arrabbia con i compagni, i nervi sono a fior di pelle, il secondo goal pesa come un macigno. Ormai mancano pochi secondi alla fine del primo tempo e i padroni di casa, i favoriti, sembrano sotto shock. Nella pausa Fadi fa un discorso molto chiaro a tutti: «Non voglio sentire proteste, giocate a calcio e basta».
Ma lo scossone del mister non riesce a risollevare il morale. I Real Refugees sembrano incapaci di reagire. Cinque minuiti dopo l'avvio della ripresa le reti da recuperare salgono a tre, grazie alla realizzazione del numero 3, Nicolò Osnaghi. Al decimo minuto Ndzie Ondoua, con la magia n.10, il migliore in campo tra i “verde nero”, prova ad accorciare lo svantaggio, ma il portiere para il suo perfetto colpo di testa. Gli “arancioneri” incalzano, i “verdeneri” non riescono più a uscire dalla loro metà campo. Al 18esimo Carlo Parmisan segna il quarto goal. Ultima rete di una partita da dimenticare per i Real Refugees.
Quello che i rifugiati non dicono
Mentre si avvia verso gli spogliatoti Danilo Moussa scuote la testa: «Abbiamo perso la testa e siamo stati sconfitti, possiamo fare molto meglio di così».
Poi, entrando nel bar, mi parla di sé, dei suoi problemi. Il principale è il permesso di soggiorno «Sto aspettando che la commissione esamini la mia richiesta di asilo da sei mesi. Conto i giorni, spero che venga accolta».
Se, invece sarà rifiuta, sarà stato tutto inutile. Anche aver rischiato la vita in mare.
Davanti ad una tazza di tè caldo, al tavolino, Moussa mi confida quello che è accaduto durante la traversata.
«Io ho 23 anni e vengo dal Camerun, un giorno all’inizio del 2024, sono partito dalla costa della Tunisia ma a un certo punto è iniziato a tuonare, il mare è diventato agitato, arrivavano onde sempre più alte e il gommone ha cominciato a imbarcare acqua, abbiamo lottato con i secchi per non affondare. Finalmente alle 3 di notte una nave ci ha intercettato, ci ha caricato e fatto sbarcare a Lampedusa. Eravamo in quaranta, ma uno non ce l’ha fatta: lo abbiamo trovato riverso sul fondo della barca. Credo sia morto per la fatica».
Una vicenda drammatica, eppure tristamente ordinaria come impara presto chi ha a che fare con richiedenti asilo.
«Inizialmente nessuno ne voleva parlare, poi poco alla volta Moussa e gli altri si sono aperti – spiega Giovanni Realmonte -. Così ho conosciuto quello che non raccontavano nemmeno alla commissione per l’asilo: chi ha visto morire in modo orribile il suo compagno di viaggio, chi è stato umiliato, picchiato, abusato. L’altro giorno in auto un ragazzo mi ha parlato di quello che ha passato in carcere, in Libia: una storia terribile. Ma in realtà ciò che davvero mi ha colpito non è stato tanto venire a conoscenza delle loro sofferenze, ma rendermi conto che dopo quello che hanno patito, sono e restano ragazzi con la stessa voglia di vivere dei nostri».
Ero venuto qui pensando di intervistare questi giovani venuti dall’Africa, di farmi raccontare cosa li avesse spinti a lasciare i loro paesi, a trattare coi trafficanti pur di avere una possibilità in Europa, quali fossero i loro sogni e come e se li stessimo aiutando a realizzarli. Ma capisco che la risposta alla sola domanda fondamentale sta in quello che ho appena visto. Negli ultimi 50 minuti, Bubacarr Joof, Ndzie Ondoua, Danilo Moussa non sono stati né rifugiati politici, né richiedenti asilo, né migranti, ma soltanto ragazzi che giocavano a calcio, esattamente come Davide Garavaglia, Stefano Padovan, Carlo Parmisan della squadra rivale. Per tutta la partita, non ci sono stati italiani e stranieri, non hanno contato il paese di nascita, i timbri sul passaporto, il mestiere o la professione. Quello che era importante era il fiato nei polmoni, la forza nelle gambe, la voglia e la determinazione di rialzarsi dopo ogni caduta. Si dice che lo sport sia un eccezionale strumento d’integrazione. Se questa non è soltanto una frase fatta, probabilmente vuol dire qualcosa di simile a quello che è successo, l’altro giorno, in un campo di calcio alla periferia di Milano.
Allenare la resilienza
Premiata nel 2020 con l’Ambrogino d’oro dal comune di Milano, l’associazione Realmonte è un volano incredibile d'iniziative in Italia e all’estero. Nata nel 2009 per offrire corsi di italiano agli stranieri titolari di protezione internazionale, ha dato vita negli anni a una ciclo-officina, a una sartoria e a molti altri progetti d’inclusione. Il calcio è solo l’ultimo ambito nel quale ha provato ad applicare il suo metodo di integrazione incentrato sulla resilienza.
«Mi alleno due volte a settimana e poi gioco il sabato. Anche in Camerun facevo parte di una squadra. Averne trovata qui un’altra mi fa sentire un po’ a casa», sorride Moussa prima di raggiungere i compagni nello spogliatoio.
Secondo la fondatrice dell’associazione Cristina Castelli, che per anni ha insegnato psicologia dell’Università Cattolica, «questa esperienza cambia il nostro sguardo su di loro: un fenomeno ben noto nella letteratura scientifica».
«Le persone che assistano alle loro partite finalmente vedono le capacità, le competenze, non il colore della pelle e il suono di parole che non conoscono e non sanno decifrare - spiega -. Ma quello che più conta e che questo cambiamento di prospettiva è percepito anche dagli stessi destinatari di quegli sguardi e finisce quindi, con l’aumentarne e rafforzarne il senso di autostima. Così abbiamo notato che da quando fanno parte di una squadra questi ragazzi sono anche più motivati e attivi nell’apprendimento e nella ricerca del lavoro».
Insomma, un circolo virtuoso, che cambia noi e loro, partito dal calcio a un pallone. Quello che il calcio può fare.