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Scienza, sapienza, servizio nel cuore della Facoltà di Medicina

15 gennaio 2024

Scienza, sapienza, servizio nel cuore della Facoltà di Medicina

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Eminenze ed Eccellenze Reverendissime, Signori Ministri e Signor Presidente della Regione Lazio, Magnifici Rettori e loro rappresentanti, Autorità civili, militari e religiose, Prorettori e Presidi di Facoltà, Chiarissime Professoresse e Chiarissimi Professori, Reverendissimo Assistente Ecclesiastico Generale, Illustri Componenti del Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo, Direttore Generale e Direttori di Sede dell’Ateneo, Presidente e Direttore Generale della Fondazione Policlinico A. Gemelli, stimato personale tecnico amministrativo, care studentesse e cari studenti, gentili signore e signori,
formulo a tutti un caloroso benvenuto alla cerimonia di inaugurazione delle attività accademiche della sede di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore per l’anno 2023/2024.

Rivolgo un particolare saluto alla prof. Stefania Boccia e al prof. Antonio Lanzone, che terranno la prolusione, e un vivo e deferente ringraziamento a Sua Beatitudine il card. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, per avere accettato di onorarci con la sua presenza, e ancor più per l’opera che compie ogni giorno con saggezza e sacrificio in una Terra Santa alla quale tutti i cristiani pensano con sentimenti di nostalgia e premura.
Ricordo in questa occasione i progetti che il nostro Centro di Ateneo per la Solidarietà Internazionale CESI ha realizzato, con il supporto di Gemelli Medical Center, in collaborazione con il Patriarcato e con le realtà cristiane operanti in quei territori. Il nostro slancio non si arresta e ci ripromettiamo quanto prima, non appena le condizioni lo consentiranno, di progettare e sottoporLe, Beatitudine, nuove iniziative.

Mi piace, infine, concludere i saluti iniziali rivolgendomi ai colleghi che sono stati di recente chiamati ad assolvere importanti incarichi istituzionali: la prof. Antonella Sciarrone Alibrandi, Giudice Costituzionale, il prof. Rocco Bellantone, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, il prof. Americo Cicchetti, Direttore Generale della Programmazione del Ministero della Salute.

1.
Questo discorso inaugurale sarà, un po' diversamente dal solito, il racconto di un viaggio; un percorso durato oltre dieci anni, iniziato alla fine del 2011, che ha portato un professore arruolato nei ranghi della sede milanese dell’Università Cattolica a scoprire gli straordinari valori umani, professionali e scientifici, che questa sede romana dell’Ateneo racchiude e, soprattutto, diffonde a beneficio della comunità. 

Il sentimento iniziale, però, era diverso; vista da lontano, la sede romana incute soggezione. La Facoltà medica da sola annovera tanti docenti quanti tutte le altre Facoltà dell’Ateneo insieme; il Policlinico Gemelli, immenso, occupa un’intera collina; è stato voluto da un Papa, molti decenni, fa; ha ospitato e curato tante volte un Papa ferito e malato; appare spesso raffigurato dai media per i pazienti illustri che spesso vi sono ricoverati. 

Soprattutto il Policlinico movimenta risorse economico-finanziarie in misura imponente; per un valore almeno doppio di tutte le altre attività dell’Ateneo.

E proprio da questo punto di vista il momento era critico. Nel novembre del 2011 l’allora Rettore, Lorenzo Ornaghi, entrava a far parte del Governo Monti; pochi giorni prima, inaugurando l’anno accademico a Milano, aveva esternato un diffuso sentimento di “affanno” per la condizione economico-finanziaria del Policlinico; e in occasione del dies academicus romano del 17 novembre, il Preside, prof. Rocco Bellantone, aveva parole esplicite, e dure, sulla delicatezza della situazione, sulle sue cause, sulla scarsa sensibilità degli interlocutori dai quali dipendeva in larga parte la possibile soluzione del problema.

Ripercorrendo alcune fonti della stampa dell’epoca si percepisce che qualche uccello non benevolo si era già alzato in volo e volteggiava sopra Monte Mario, in attesa impaziente degli eventi.

Insomma, vista da Milano, Roma era essenzialmente un problema. Ma i pregiudizi negativi possono essere rimossi, e quando ciò avviene è grazie alla conoscenza della realtà.
Del resto, scrive Goethe, “Solo a Roma è possibile prepararsi a comprendere Roma”.  

2. 
Il primo passo per conoscere porta a indagare sui motivi e le scelte delle origini. Perché un’università non statale, centrata sulle materie umano-sociali, fondata e con sede principale a Milano, costituisce una Facoltà di Medicina e fonda un policlinico? E perché a Roma? A molte ore di viaggio, a quei tempi, dalla sede principale.

La prima domanda trova risposta nella determinazione di Padre Gemelli, espressa in un articolo pubblicato su Vita e Pensiero: Perché i cattolici italiani aspirano ad avere una facoltà di medicina. Non è un saggio dotto, è l’espressione di una passione; racconta dell’esperienza di medico militare fatta da Gemelli, e si conclude enunciando un programma etico e spirituale: “vogliamo una Facoltà medica cattolica … perché … vogliamo che la carità che si ispira al nome di Cristo venga esercitata per i nostri malati in guisa da sollevarli dalla tristezza in cui la malattia li ha costretti”.

Per rispondere alla seconda domanda – perché a Roma – occorre curiosare in qualche archivio, che riserva interessanti notizie. Già nel 1934 Papa Ratti, Pio XI, aveva donato l’area di Monte Mario, dove sarebbe sorta la sede; ma si sarebbe dovuto attendere i mesi che hanno preceduto la morte di Padre Gemelli, nel luglio del 1959, per gli impulsi decisivi.

Fino all’ultimo, però, si discusse se la sede della nuova Facoltà dovesse essere Milano o Roma; era forte la preoccupazione che la distanza dalla sede principale avrebbe accresciuto le difficoltà dell’impresa forse fino a renderle insuperabili. Gemelli volle sul punto una votazione del Consiglio di amministrazione a scrutinio segreto, che si concluse con 4 voti a favore di Roma, e uno per Milano. E ancora nella primavera del 1958 Gemelli interpellò Papa Pio XII, che si espresse senza mezzi termini in favore di Roma.

Restava un altro nodo da sciogliere: il policlinico. All’epoca solo tre università avevano un “proprio” ospedale, da esse direttamente gestito, e nessuna di queste era non statale. La clinicizzazione di un ospedale già esistente appariva così la soluzione, nell’immediato, più prudente e razionale. Ma non poteva essere accettata: le stesse ragioni fondamentali che erano alla base della creazione di una scuola medica dell’Università Cattolica imponevano un policlinico appartenente all’università e consacrato ai medesimi valori. In tal modo, in conseguenza di una scelta tanto radicale sul piano dei valori, quanto coraggiosa su quello materiale, nacque, proprio sessanta anni fa, il Policlinico Gemelli.  

Padre Gemelli, spesso si ricorda, non vide l’avvio dei corsi della nuova Facoltà e l’edificazione del Policlinico, ma ha sospinto fino al suo compimento l’intero processo costitutivo: il decreto del Presidente della Repubblica istitutivo della nuova Facoltà intervenne il 18 giugno 1958; i lavori di quelli che oggi chiamiamo gli istituti biologici iniziarono nel marzo del 1959. 

3. 
Prendeva così avvio un’esperienza senza precedenti e, nelle condizioni date, audace fino alla soglia del paradosso: una facoltà medica di una università non statale con un connesso policlinico, chiamati, entrambi, a sostenersi con le solo loro forze; e ancor prima ad accreditarsi in un ambiente scientifico e professionale all’epoca non favorevole.

Nella ricorrenza del 60° anniversario del Policlinico, non si può non ricordare il coraggio e la fede dei pionieri che hanno riposto le loro aspettative nella nascente realtà di questo campus: i clinici, autorevoli, che accettarono di trasferirsi in questo borgo della periferia romana, in una struttura che in parte era un cantiere e in parte – nelle aree ancora non interessate dalle costruzioni – paesaggio bucolico; e ancor più gli studenti, quelli del primo corso, ragazzi che decisero di affidare le loro attese ad una realtà formativa ancora nascente e incompiuta. E che per di più dovevano assoggettarsi a un procedimento di selezione, per rientrare in un numero programmato di 125 studenti. Un’altra delle dirompenti novità del progetto della Facoltà medica della Cattolica, sulla quale tornerò anche più avanti. 

4. 
Ma torniamo al viaggio verso Roma. Che, come si è visto, prende avvio in un momento non felice. All’inizio del nuovo millennio il nostro Policlinico, potentemente cresciuto nei suoi primi 50 anni di vita, era malato e si era al punto aggravato che rischiava di propagare il contagio all’intera Università, alla quale direttamente faceva capo e alla quale, dunque, erano imputati i risultati economici dell’attività assistenziale sanitaria.

Non mi diffondo sulle cause di questa situazione; è la reazione che ne è seguita ciò che conta. Indubbiamente la sede romana ha superato la crisi grazie a un importante sostegno finanziario dell’Ateneo, che ha impiegato tutti gli accantonamenti esistenti all’epoca; e grazie al confronto con autorità pubbliche che, finalmente, hanno compreso la necessità di sistemare risalenti contenziosi; ma soprattutto ha attinto alle sue proprie forze, ha rivelato i valori che racchiudeva: sacrificio, lucidità, scienza, sapienza, educazione, servizio. Di questo intendo parlare oggi.


5.
Sacrificio.  L’intera sede, la componente universitaria e quella assistenziale, ha serrato i ranghi, accettando riduzioni dei compensi e moltiplicando gli sforzi per rendere più efficiente l’ospedale e più sostenibile l’operatività economica. Evocare il senso di appartenenza a un’istituzione è un classico stilema, ma in questo caso di quel sentimento è stata data prova tangibile, perché unanime è stata la volontà di preservare ciò che era stato creato e coltivato negli anni, di salvaguardarne i motivi fondamentali, di fare in modo, insomma che il Gemelli restasse fedele alla propria missione. Il dubbio – per essere espliciti – non era che il Policlinico potesse non proseguire le proprie attività, ma che subentrasse un cambio di guida che ne stravolgesse gli intenti e i principi. Questo ha difeso la gente del Gemelli: non di poter continuare o meno a lavorare in questo ospedale (dubbio che non ha mai avuto seria ragione di porsi), ma che il Gemelli rimanesse se stesso.

6.
Lucidità. Il Policlinico, l’ospedale nato con la Facoltà e insieme a quella voluto, con le decisioni di cui ho detto, doveva ora, dopo 50 anni di vita, venirne separato, per assicurare una maggiore focalizzazione ed efficacia della gestione assistenziale. Un simile riassetto, per chi aveva svolto in questo campus tutto il percorso formativo e professionale, poteva apparire uno strappo lacerante con la tradizione e l’identità di una realtà nata unica e inscindibile. Ma il senso di quell’operazione fu infine capito e accettato. Ricordo, grato, l’autorevole sostegno che il card. Angelo Scola assicurò, aiutando in modo determinante a superare le perplessità che in tanti contesti venivano affacciate. 

7. 
Questa sede universitaria è luogo di scienza, ai più alti livelli. Gli indicatori quantitativi, in termini di pubblicazioni, di impatto, di collocazione nelle graduatorie internazionali e finanziamenti, rendono l’immagine di una ricerca in potente crescita, anche, negli ultimi anni, per effetto dell’azione convergente delle strutture dell’Ateneo e della Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS. Non mi trattengo sui numeri, ma va detto che con un minore organico si è fatto di più; ricordo, per esempio, i risultati degli esercizi VQR (la valutazione della qualità della ricerca condotta dall’Anvur), un tempo insoddisfacenti, oggi lusinghieri. 

Progressi così rilevanti non sono casuali. Hanno due motivazioni principali: la capacità di reclutamento dall’esterno di studiosi di alto valore; la capacità di far crescere giovani talenti. Tutto ciò, nuovamente, richiede lucidità, nel fare le scelte che comportano anche la frustrazione di talune aspettative, ma soprattutto poggia sull’autorevolezza, di chi riveste il ruolo di Preside – e ringrazio i due con i quali ho operato Rocco Bellantone e Antonio Gasbarrini – e dell’intera faculty. Se tanti autorevolissimi studiosi si uniscono a questa Facoltà, e ne sono orgogliosi, ciò non dipende dalla misurazione occhiuta degli score di ricerca, bensì da qualcosa di indefinibile, ma percepibile e decisivo: la reputazione, che in questi anni la Facoltà ha costruito; e lo ha fatto non solo attingendo all’esterno ma anche mostrandosi capace, come prima dicevo, di rigenerarsi formando i docenti di domani.

I numeri sono a disposizione. Gli studiosi e docenti su questo palco, e i giovani studiosi in sala – per il momento, ma non siate impazienti – rappresentano più di quanto cifre e grafici possano dire.

8. 
Non si richiede solo scienza, non c’è solo la scienza, ci vuole sapienza. E questo ha a che fare con lo statuto epistemologico della medicina. L’approccio scientifico sperimentale ha svincolato la medicina da precomprensioni e superstizioni, conducendola a elaborare un sapere sempre più puro (dice K. Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, 1^ ed. 1968), a fronte del quale arretra la relazione tra medico e malato, che progressivamente rischia di essere svuotata del suo contenuto etico. H.G. Gadamer (Dove si nasconde la salute, 1^ ed. 1993) individua nell’oblio del soggetto la condizione di possibilità della medicina tecnico-scientifica, tesa alla produzione di conoscenza obiettiva e verificabile, e traducibile poi in prassi operative, protocolli. Proprio in questa dimensione emerge la peculiarità della scienza medica: “Nell’ambito delle scienze moderne la medicina rappresenta una singolare unità di conoscenza e sapere pratico, una coesione che non può essere intesa come applicazione della scienza alla prassi. Dunque consiste in un genere speciale di scienza pratica di cui nel pensiero moderno si è smarrito il concetto”; si tratta allora di combattere quella che Jaspers chiama la “superstizione scientifica”, e comprendere che “il caso” costituito dal paziente “non coincide affatto con quanto nella scienza rappresenta il caso particolare di una legge”, perché esprime una sua irriducibile unicità esistenziale, che chiede al medico non soltanto di saper fare qualcosa applicando una determinata conoscenza funzionale a un certo risultato, ma di sapere come prendersi cura della persona; e a questo scopo non basta la tecnica, occorre la sapienza, perché occorre aiutare il paziente a dare un senso alla propria sofferenza. La medicina scientifica rischia invece di impedire “di rendersi conto che il senso della malattia consiste nel condurre chi ne è colpito al senso della vita”; la storia di questa Facoltà e di questo Ospedale sono un costante richiamo all’attenzione per la persona del malato, all’esercizio della sapienza.  

9. 
La sapienza nell’esercizio dell’arte medica, però, non si trasmette con un pacchetto di informazioni; si apprende, attraverso l’educazione, che è promozione di una crescita personale individuale, non mero trasferimento di nozioni. L’impegno di questa Facoltà nella didattica – che resta la “prima missione” di un’università – è importante: i 125 studenti del primo corso sono diventati più di 5.000 iscritti ai vari corsi offerti, tra i quali segnalo il nuovo corso di Medicina e chirurgia in lingua inglese a Bolzano – che si aggiunge a quello attivato alcuni anni or sono e che offre il double degree con TJU – e quello in MedTech in collaborazione con la Facoltà di ingegneria dell’Università di Roma Tre.

L’accenno ora svolto permette, ancora, una breve digressione che ricuce l’attualità alla storia. L’8 dicembre 1958 Padre Gemelli lesse il suo ultimo discorso inaugurale, dal titolo “Orientamento e selezione degli studenti universitari”. Lo spunto era proprio il recente decreto istitutivo della nostra Facoltà medica, nel quale era recepita la norma per cui per l’iscrizione al corso di laurea in medicina gli aspiranti sarebbero stati sottoposti a un esame medico e a un esame “attitudinale e psicodiagnostico”; “esami che hanno lo scopo di constatare se gli aspiranti hanno le qualità fisiche e attitudinali per poter attendere agli studi superiori di medicina”.

Si trattava di una regola senza precedenti nel nostro sistema, pensata non tanto per limitare l’eccesso di iscrizioni, che pure all’epoca affliggeva il sistema universitario, quanto per “ottenere una popolazione scolastica capace di attendere agli specialissimi studi della Facoltà di medicina con la possibilità di conseguire buoni risultati”. Questo il senso delle attività di – riprendo il titolo – “selezione e orientamento”: aiutare gli studenti a scoprire i propri specifici talenti, e a coltivarli, impiegare le risorse della collettività nella formazione di coloro che possono con migliore profitto e utilità seguire un percorso di studi. Nel discorso Gemelli approfondiva il tema dei metodi di valutazione e, da psicologo, sottolineava i limiti degli strumenti di selezione, osservando che il compito non può che essere assolto dalla scuola, cioè da chi conosce gli studenti, la loro ricchezza e complessità intellettuale e morale, e può essere capace di indirizzarli.

Siamo oggi nella fase di una nuova revisione delle regole di ingresso alle facoltà mediche. Vedremo quali saranno e le esamineremo anche nel quadro degli spazi di autonomia che ci sono concessi; ma un punto di principio va riaffermato con convinzione: la medicina è materia delicata, non si possono fare sconti nell’elargire certificazioni di competenze, occorre che chi ha il titolo abbia conoscenza ed esperienza. Per questo, e non casualmente, la nostra università, come ho prima ricordato, si è fatta carico del difficile compito di dotarsi di un proprio Policlinico, perché, se si vuole educare un medico e si vuole insegnare a essere medico, non si può farlo “per corrispondenza”, con le dispense e le videocassette, e neppure con il metaverso. 

Si narra, a proposito della fascinazione per le nuove tecnologie, che uno studente avesse chiesto a Ludolf von Krehl (celebre professore ad Heidelberg tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900) se lo stetoscopio elettrico, di recente invenzione, costituisse un miglioramento per la pratica medica. La risposta: “Mah, i vecchi stetoscopi andavano già bene per auscultare. Non so, però, se a lei sarebbero bastati”. Parole sprezzanti di un barone di un secolo fa, si potrebbe pensare. Ma racchiudono un elemento di verità.

La tecnologia aiuta, apparentemente talora livella le capacità individuali, ma non surroga l’uomo, e neppure lo marginalizza, perché l’esercizio dell’arte medica, anche quando sorretta dalla tecnica, richiede sempre l’acquisto di una competenza, la disciplina severa dell’esperienza, l’esercizio, la consapevolezza dei propri limiti. 

E più di ogni altra cosa occorre che lo studente abbia incontrato un malato vero, e abbia provato il peso della responsabilità di dare una risposta. Il dialogo tra il paziente e il medico non è una conversazione e nemmeno uno sfoggio di conoscenza, è una risposta a una drammatica domanda di una persona sofferente. Paolo VI nel 1970, in un discorso rivolto ai medici richiamava il valore dell’aspetto umano della professione medica e lo faceva, con straordinaria lungimiranza se pensiamo ai problemi che la recente pandemia ha svelato, ricordando le parole di A. Solženicyn (tratte dal volume pubblicato da Einaudi con il titolo di Reparto C, ma dal brutale titolo originale di Padiglione Cancro), dedicate al medico di famiglia, che “era la figura più intima nella vita, ma l’hanno estirpata. Il medico di famiglia è la figura senza la quale, in una società sviluppata, non può esistere la famiglia … Ma quanti adulti adesso si dibattono muti, non sapendo dove trovare un medico e un’anima, a cui poter esprimere i propri timori più segreti”. 

Formare medici non vuol dire costruire macchine antropomorfe che elaborano e sfornano diagnosi e applicano protocolli, ma preparare anime capaci di dialogare. 

10. 
Servizio. La Facoltà e il Policlinico sono stati pensati per assolvere una funzione sociale; ed è una funzione necessaria: Michel Foucault (in Nascita della clinica, Einaudi, 1963) nota che “la malattia ha probabilità di trovar guarigione solo se gli altri intervengono col loro sapere, colle loro risorse, colla loro pietà, poiché non c’è malato guarito se non nella società”.

Il Policlinico non è stato concepito per essere un luogo di pura ricerca clinica; è un servizio alla collettività, in termini di cura e di formazione dei futuri medici (oltre 50 scuole di specialità). Ed è stata una scelta precisa e forte, quella di operare nel SSN e di farlo offrendo con generosità un impegno senza limitazioni (il che vuol dire anche senza scegliere le attività più o meno economicamente vantaggiose, o quanto meno sostenibili).

La dimensione di questo servizio è attestata da numeri sui quali non mi trattengo i volumi di ricoveri, di attività ambulatoriali, di prestazioni di pronto soccorso sono noti, costantemente ripetuti, ma soprattutto sono noti a tutti coloro che vivono in questa città. E a questa consapevolezza un numero in più o in meno non aggiunge nulla.

Un tale approccio, però, ci aveva portato alla soglia di un punto di non ritorno, dieci anni fa e ha richiesto, come ho ricordato, uno sforzo straordinario – e, va detto chiaramente, non ripetibile – dell’Ateneo per consentire al Policlinico di risollevarsi e continuare a svolgere la propria funzione sociale.

Ancora oggi la funzione di servizio pubblico è svolta con sacrificio. Nonostante in questi anni il Policlinico sia stato portato a livelli estremi di efficienza (ringrazio per questa opera i Direttori Generali del Policlinico che si sono succeduti nel tempo, e il presidente della Fondazione, avv. Carlo Fratta Pasini, e tutto il management e il personale della Fondazione), il risultato economico dell’attività SSN è negativo, e non potrebbe essere diversamente, posto che i parametri di remunerazione delle attività erogate sono rimasti quelli del 2011. Non credo esista un’attività economica – soprattutto in un ambito nel quale l’evoluzione tecnologica è incessante e impone agli operatori di adeguarvisi – che possa sostenersi in simili condizioni. 

E tuttavia, fino a oggi, questa paradossale impresa è riuscita. Grazie a un costante impegno per l’incremento dell’efficienza, teso a contenere le perdite inevitabilmente generate dall’attività di pubblico servizio.

A chi si ostinasse a liquidare il Gemelli come un “privato” erogatore di prestazioni sanitarie, è agevole far notare che il Gemelli raggiunge e supera i tetti di prestazioni ambulatoriali e di ricovero di pazienti regionali fissati dal sistema regionale. Il che, in parole più semplici, significa che il Gemelli fornisce al sistema pubblico tutte le prestazioni che questo è disposto ad acquistare, e anzi anche di più: nel 2023 sono state svolte attività extrabudget – vale a dire prestazioni non remunerate – per oltre 5 milioni di euro.

Questo è servizio, con spirito di carità, che si manifesta quando non si esita a fornire ai malati prestazioni sottocosto, ma indispensabili per la tutela della salute, o in eccesso rispetto ai tetti delle remunerazioni che ci sono imposti.

11. 
Alla fine del viaggio, ho trovato in questa sede romana ben custoditi, talora celati, tesori di conoscenza, passione, dedizione. Chi, nelle altre sedi, aveva affacciato dubbi sull’opportunità di destinare tutte le risorse di cui allora l’Ateneo poteva disporre per superare la crisi, si è ricreduto avendo di fronte la prova di ciò che si è stati capaci di fare, e mi sento con convinzione di dire che oggi l’Università Cattolica è una e unita come, forse, non lo è mai stata nel corso della sua storia.

Ho raccontato la vicenda di un riscatto, dell’uscita da una crisi, e di una straordinaria crescita (penso qui ai risultati nella ricerca scientifica e nella didattica). Spero che il lavoro intenso che è stato fatto – non solo dalla Facoltà e dal Policlinico, ma dall’intero Ateneo – e i risultati raggiunti verranno preservati con premura e competenza, perché il passato ci ha insegnato quale può essere la gravità dei pericoli. Ci ha insegnato che nulla è scontato. Nei Moralia di Plutarco Cesare Augusto si rivolge a Pisone, che stava adornando la sua dimora, dicendogli: “Mi rendi felice a costruire così, come se Roma dovesse essere eterna”. Questa sede è nata, in effetti, per realizzare valori eterni, ma va quotidianamente difesa.

Ad ogni svolta del percorso si aprono altri orizzonti e nuove prove ci attendono. E bisognerà ricominciare ancora daccapo, per onorare la missione che questa istituzione ha ricevuto dai fondatori.
È facile allora evocare il finale del capolavoro di Francis Scott Fitzgerald: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.

È stato un onore, cari Colleghi, remare insieme a voi, con ogni energia, per arrivare fino al punto in cui siamo, resistendo alla corrente per non farci spingere indietro. E di questo abbiamo tutti diritto di essere orgogliosi.
 

Discorso di

Franco Anelli

Franco Anelli

Rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore

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