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| Katia Biondi
21 aprile 2023
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Una strategia che ha fatto della diversificazione tecnologica e geografica il suo punto di forza. L’ha adottata Eni per affrontare il «mare in tempesta» scatenato dagli eventi degli ultimi due anni cominciati con la pandemia e culminati con una guerra di cui non si vede la fine e ha portato alla scomparsa del gas russo in Europa. «Abbiamo mantenuto il nostro piano di trasformazione e decarbonizzazione con obiettivo net zero al 2050, lavorando contemporaneamente ad accelerare lo sviluppo delle nostre scoperte gas per portare nuovi volumi in Italia ed in Europa, visto che non possiamo più contare sul gas proveniente dalla Russia». A raccontare in presa diretta le scelte messe in campo dalla major energetica italiana è l’amministratore delegato Claudio Descalzi, ceo dell’Eni dal 2014, riconfermato per la quarta volta alla guida della società dall’attuale governo Meloni.
Accettando l’invito di uno studente del collegio Ludovicianum, Descalzi giovedì 13 aprile ha partecipato a una lezione aperta alla comunità studentesca dell’Università Cattolica, promossa dall’Ateneo con l’obiettivo di fare chiarezza sulla complessità della situazione attuale e capire quali sono le future sfide energetiche che attendono l’Europa, Italia inclusa. «La presenza di Descalzi rinsalda un’antica relazione di questa Università con Eni», ha detto il rettore dell’Università Cattolica Franco Anelli nel saluto che ha aperto l’incontro. «Basti pensare che Marcello Boldrini, preside prima della facoltà di Scienze politiche e poi di Economia, è stato anche vicepresidente e poi presidente di Eni prendendo il testimone del suo amico Enrico Mattei. Insieme promossero grande parte dell’immagine e della funzione dell’allora Ente Nazionale Idrocarburi, un’impresa che ha avuto e ha un ruolo strategico nello sviluppo del nostro Paese».
Una lezione entrata subito nel vivo con una domanda sulla sostenibilità. Come si colloca l’Unione Europea rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione e raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050 richiesti dall’European Green Deal e quali sono gli ostacoli da superare? A porre il quesito è Roberto Zoboli, prorettore, delegato al coordinamento e alla promozione della ricerca scientifica e della sostenibilità dell’Università Cattolica, discussant del dibattito insieme con Riccardo Redaelli, docente di Storia e istituzioni dell’Asia nella facoltà di Scienze politiche e sociali e direttore del master Aseri in Middle Eastern Studies. Secondo Descalzi quello che storicamente manca, e che è mancato all’Europa - che si è trovata a dover fare i conti con un’improvvisa riduzione negli approvvigionamenti di gas (attualmente riceviamo dalla Russia a livello europeo meno del 10% dell’import totale a fronte del 30% dello scorso anno) - è stato un piano di sicurezza energetica. «Ci siamo ritrovati con una “grande expertise” sul climate change e sulla riduzione delle emissioni (l’Europa, con la sua quota di emissioni di CO2 è la macroregione più virtuosa) ma senza un piano per continuare a garantire energia a fronte di shock delle forniture e ad un costo tale da permettere alle industrie di produrre articoli che possono stare sul mercato. «C’è un sistema completamente sbilanciato che fa dell’industria della trasformazione il suo cuore pulsante ma non ha energia e quando riesce ad averla la paga molto di più. Tutti elementi che indeboliscono il nostro sistema industriale», dichiara Descalzi. Di qui la necessità di diversificare, proprio come ha fatto Eni, indicando una strada che potrebbe essere una chiave di volta anche per l’Europa nella gestione della crisi energetica.
Ma per abbassare il costo dell’energia serve anche altro, occorrono la sua abbondanza e ridondanza. Deve esserci sicuramente il gas ma anche «devono esserci più infrastrutture di ricezione», ossia rigassificatori necessari per ricevere il GNL. Come sono fondamentali il supply, con un’offerta che deve uguagliare la domanda, e uno stock, con quantitativi di gas tali da far stare tranquillo il mercato evitando speculazioni sul prezzo. È, comunque, essenziale affiancare a una strategia di breve periodo, utile a calmierare i costi energetici, l’attenzione inalterata alla trasformazione in chiave low carbon del nostro sistema economico, «una traiettoria a medio-lungo termine che è proprio quella del contrasto al climate change, del net zero, della riduzione delle emissioni, dei cambiamenti comportamentali».
Del resto, le trasformazioni del sistema internazionale hanno dinamiche di lungo periodo che prescindono da eventi contingenti, come il Covid e la guerra russo-ucraina. «L’atteso decoupling dal gas naturale russo e la necessità di una diversificazione dei paesi fornitori hanno rilanciato l’importanza del Mediterraneo allargato e dell’Africa», afferma il professor Redaelli. Tuttavia, «è fondamentale che il nostro sguardo a queste regioni non sia solo ”funzionalistico” o, peggio, “utilitaristico”, ma rappresenti un volano per una reale collaborazione che porti beneficio alle popolazioni coinvolte». E di questo è convinto anche il ceo di Eni che, a proposito di rapporti con i paesi africani, parla di un approccio che sia innanzitutto vincente per l’Africa, metta in primo piano le alleanze volte alla «creazione di valore», ribaltando così l’atteggiamento dominante guidato dalla logica del semplice investimento con il relativo ritorno. «Perseguire Il profitto a brevissimo termine brucia la possibilità di stabilire relazioni strategiche e durature. L’Africa ha grandissime potenzialità energetiche». E se l’Europa vuole farne un suo partner privilegiato «non deve pensare di andare lì con l’idea di vincere ma deve prendere dei rischi per loro e con loro».
E «l’Italia può essere strategica?», chiede uno studente presente in aula. Per Descalzi «c’è la possibilità di fare dei passi avanti». Il «nostro Paese è pronto» e può farsi «promotore di un piano di collaborazione diversa con l’Africa». In questo senso l’Eni può essere un esempio. Infatti, Descalzi, facendo riferimento alla sua esperienza professionale, ricorda che negli anni 80 in Nigeria, più precisamente nel Niger Delta, c’erano appena 30 famiglie di agricoltori. Le iniziative realizzate da Eni per favorire l'imprenditoria agro-zootecnica locale arrecano beneficio oggi nella stessa area a circa mezzo milione di persone. «La chiave del successo della compagnia è investire negli altri. Lavorare con noi vuol dire crescere, svilupparsi con le nuove tecnologie, collaborare con le università». I dati lo confermano: negli ultimi sette anni l’azienda ha investito circa 8 miliardi di euro in nuove tecnologie. Attualmente ha rapporti con 70 centri di ricerca e in Italia ne ha costruiti sette. Infine, rivolgendosi alla platea Descalzi dà qualche consiglio: «Se investite solo su voi stessi difficilmente riuscirete a fare dei passi avanti. Investire negli altri, con generosità, vi permetterà di crescere ed avere con gli interessi quello che avete dato».
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