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Capaci, quel che resta trent’anni dopo

23 maggio 2022

Capaci, quel che resta trent’anni dopo

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Capaci, 23 maggio 1992.

Il passaggio delle auto. L'esplosione. Cinquecento chili di tritolo. Un intero tratto di autostrada sventrato.

Sono passati esattamente trent'anni da quando Cosa Nostra decise di uccidere con un attentato tanto eclatante quanto spaventoso il giudice Giovanni Falcone. Con lui vengono assassinati la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. È l'inizio della stagione delle bombe che proseguirà in modo drammatico 57 giorni dopo in Via D'Amelio con la morte di Paolo Borsellino, collega e amico fraterno di Falcone. Un attacco al cuore dello Stato, proprio nei giorni in cui il Parlamento è riunito in seduta comune per eleggere il Presidente della Repubblica. L’Italia della cosiddetta Prima Repubblica destinata a cadere sotto i colpi di un'inchiesta che ha mosso i primi passi qualche mese prima: Mani Pulite.

Cosa è rimasto, oggi, di quelle macerie? L'Università Cattolica ha ricordato con incontri, pubblicazioni e spunti di riflessione questo doloroso ma fondamentale anniversario. Un'occasione per ricordare che la lotta a Cosa Nostra è essenzialmente culturale perché, come disse lo stesso Falcone in una famosa intervista «la mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani come ha avuto inizio avrà anche una fine».

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Redazione

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Secondo il docente di Diritto penale della Cattolica Luciano Eusebi quella di Falcone era una visione moderna dei mezzi con cui opporsi alla criminalità: non contro una o più singole persone (delle quali non va esclusa la possibilità di una revisione di vita), ma contro l’apparato dell’agire criminoso. Questo trova un riscontro - ricordando con Falcone le altre vittime di Capaci: la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Rocco Dicilio, Antonio Montinaro e Vito Schifani - nelle ben note parole, al funerale, della moglie, Rosaria, dell’agente Schifani: perdono non volle certo dire ignorare, o genuflettersi alla crudeltà prepotente. Volle essere la rivendicazione radicale del non volersi porre sullo stesso piano dei criminali secondo la logica della ritorsione, quasi potesse trattarsi di una partita di giro tra l’agire della mafia e quello dello Stato.

Perdono ma "vi dovete mettere in ginocchio"

La casa editrice dell’Ateneo, Vita e Pensiero, ha pubblicato per la collana “Piccola biblioteca per un Paese normale” il libro “Mafia. Fare memoria per combatterla” del Presidente del Tribunale di Palermo Antonio Balsamo che, all’indomani della strage, fu chiamato a indossare per la prima volta la toga per vegliare i corpi straziati di Falcone della moglie e della scorta. Il volume è stato presentato a Palermo venerdì 13 maggio alla presenza di Maria Falcone, sorella del giudice e presidente della Fondazione che ne porta il nome e di Caterina Chinnici, magistrato e europarlamentare, figlia di Rocco, ideatore del Pool antimafia assassinato dalla mafia nel luglio del 1983.

«Trent’anni dopo la loro uccisione – scrive Balsamo nel libro - possiamo essere certi che il loro sacrificio non è stato vano. La strage di Capaci ha segnato uno dei momenti più drammatici della strategia del terrorismo mafioso, ma anche un punto di svolta nella coscienza civile del Paese e nell’azione dello Stato contro la criminalità organizzata».

«Questa impresa criminosa, che per Cosa nostra doveva rappresentare l’espressione della massima potenza, ha segnato, in realtà, l’inizio della fine di un’epoca nella quale la mafia dei ‘corleonesi’ poteva contare su un solido rapporto di alleanza e cointeressenza con numerosi settori del mondo sociale, dell’economia e della politica. Dopo la strage di Capaci, Cosa nostra è stata percepita dall’intero Paese, e dalla comunità internazionale, come un fenomeno criminale di stampo eversivo capace di colpire al cuore lo Stato italiano, e non più come una componente strutturale della società siciliana, una subcultura meridionale, una situazione locale con cui diversi ambienti esterni potevano pensare di convivere in una posizione di malcelata indifferenza, interrotta da saltuarie spinte emozionali».

«Un evento drammatico – ricorda Balsamo - che è rimasto scolpito nella memoria collettiva e ha cambiato davvero la storia dell’Italia, ma in senso opposto rispetto a quello che avevano immaginato i vertici di Cosa nostra».

La convergenza di interessi dietro la strage di Capaci

Un concetto ribadito con forza anche dal Generale di Corpo d'armata Giuseppe Governale, già direttore della Direzione investigativa antimafia ed ex comandante nazionale del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dell'Arma dei carabinieri che mercoledì 11 maggio ha tenuto, presso il campus di Brescia del nostro Ateneo, una lezione aperta agli studenti del corso di Relazioni internazionali: «Negli ultimi trent' anni, per la prima volta, siamo in vantaggio nella lotta alla mafia. Ma per vincere abbiamo bisogno che entrino in campo altri corpi sociali: la scuola, la Chiesa, la cultura e il senso civico. I ragazzi conoscono ancora troppo poco la Costituzione, proprio loro che saranno i dirigenti di domani».

Chiesa, cultura e scuola i nostri reparti speciali contro la mafia


Tuttavia, ha sottolineato Governale, «le mafie hanno cambiato pelle e per queste non si riconoscono. Sono arretrate sul piano militare, ma sono molto presenti negli affari e nelle dinamiche finanziarie».

Per il professor Ernesto Savona, direttore del centro di ricerca Transcrime sulla criminalità transnazionale, «la lotta alla mafia, così com’è stata condotta in questi trent’anni dalla morte di Falcone, ha conseguito alcuni successi dovuti anche alla lungimiranza del giudice che aveva visto giusto sull’organizzazione dell’attività giudiziaria e di quella investigativa attraverso la DNA e la DIA».


Ma alla base c’è un problema di cultura. «Occorre far capire – spiega Savona - che non sono solo i giudici e poliziotti a combattere la mafia, ma i cittadini che mettono in essere attività conseguenti di carattere civico a non far prosperare il fenomeno mafioso come hanno fatto, per esempio, gli imprenditori che in questi anni hanno denunciato le attività estortive».

«Dobbiamo investire moltissimo sulle giovani generazioni – ricorda il direttore Transcrime - spiegando che la cultura mafiosa è segno di povertà e di depressione e soprattutto nel sud questi dati sono molto importanti perché diventano, e sono, l’arretratezza delle regioni meridionali dove le organizzazioni mafiose proliferano».


“Saperi per la legalità, al via la II edizione del Premio dedicato a Giovanni Falcone 

Molto dunque è stato fatto ma molto resta da fare perché la “Bestia” può sempre rialzare la testa.  Trent’anni dopo la strage di Capaci il bilancio nella lotta alle mafie è sicuramente positivo. Questo è un dato di fatto che va riconosciuto per comprendere che la strada intrapresa dopo quel drammatico 1992, è quella giusta.

A ricordarlo, giovedì 26 maggio, nella Cripta Aula Magna della sede di Milano dell’Università Cattolica sono stati importanti esponenti del mondo poliziesco, politico e giudiziario in prima linea nella lotta alla mafia intervenuti in occasione di un incontro promosso dal Collegio Augustinianum.
 

Ricordare per costruire un futuro libero dalle mafie


Francesco Messina, Direttore centrale Anticrimine della Polizia di Stato ha ricordato che «sono stati sferrati colpi durissimi a Cosa Nostra: lo Stato ha distrutto il suo apparato militare, effettuato centinaia di arresti, accerchiato i latitanti. E l'ultimo grande corleonese ancora in libertà prima o poi lo prenderemo».

«Abbiamo fatto davvero tanto – ha ribadito Paolo Guido, Coordinatore unico della Direzione distrettuale antimafia della Procura di Palermo - il modello verticale è stato sconfitto. Quella struttura ha perso la guerra. È storia. Il maxi-processo resta, ancora oggi, il dibattimento con più imputati a livello mondiale. Tutta la mafia stragista è seppellita in carcere e morirà in carcere. Lo Stato non ha ceduto, ha tenuto banco. Dobbiamo dircelo. Basta con gli alibi e con le scuse. Questo è il momento in cui possiamo fare un passo oltre».


«È vero che l'Italia ha le leggi antimafia migliori d’Europa e probabilmente del mondo – ha aggiunto il Presidente onorario della Fondazione Caponnetto e già presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci - ma il testo più importante contro le mafie è la nostra Costituzione. Voi - ha detto ai tanti ragazzi presenti in aula -  ragazzi dovete garantire la credibilità di questo Paese. Credibilità, una parola che piaceva tanto al giudice Rosario Livatino. Dobbiamo sottolineare sempre di più il valore della scelta. Bisogna scegliere. Adesso. Senza atti di eroismi, che di eroi ne abbiamo avuti anche troppi, serve una nuova normalità. E guai a mettere in prima linea l’Io perché nella lotta alla mafia è il Noi che vince».
 

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