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Bambini in zone di guerra, scrivere pagine nuove e non restare indifferenti

13 dicembre 2024

Bambini in zone di guerra, scrivere pagine nuove e non restare indifferenti

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«Un bambino su cinque in tutto il mondo vive in una zona di guerra, significa 473 milioni di minori. Ogni giorno 31 di loro subiscono violenze o mutilazioni, è come un’intera classe di scuola che diventa vittima di un conflitto».

Padre Enzo Fortunato apre così il suo intervento al convegno “Minori in contesto di conflitto”, mercoledì 11 dicembre, in Università Cattolica a Milano, invitando a «scrivere pagine nuove e non restare indifferenti». Padre Fortunato, presidente del Pontificio Comitato per la Giornata Mondiale dei Bambini, istituito da Papa Francesco proprio per adempiere alla funzione di comunità educante e caritatevole della Chiesa, ricorda l’insegnamento di Gesù, che spinge i suoi discepoli a guardare il mondo con lo stupore tipico dei bambini: «Dovremmo farlo tutti, soprattutto i potenti che dovrebbero chiedersi “che futuro vogliamo donare ai nostri figli?”».

Il direttore del Centro di Ateneo per la Solidarietà internazionale (CeSI) Marco Caselli, intervenuto all’incontro, sottolinea come «la gravità dei conflitti non si esaurisce quando le armi tacciono, le conseguenze lasciano tracce drammatiche nel corpo e nell’animo. Il bisogno di aiuto e assistenza permane anche quando la comunità internazionale sposta la propria attenzione altrove».

«Nello stesso anno del 35° anniversario dell’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, 52 Paesi al mondo sono in guerra, decine di migliaia di vite sono sconvolte dai conflitti. Il Bice cerca di essere presente in questi luoghi e portare assistenza, è un modo per dire “siamo con voi in questa tragedia, vi teniamo per mano”» – dichiara Alessandra Aula, segretario generale del Bureau International Catholique de l’Enfance (Bice).

A seguire, la professoressa di diritto internazionale Eleonora Branca fornisce un quadro giuridico sulle norme a tutela dei minorenni nei contesti di guerra. Partendo dai dati che mostrano un incremento del 21% delle violazioni rispetto allo scorso anno, ripercorre i punti focali delle Convenzioni delle Nazioni Unite, come quelle di Ginevra e di New York.

Sono una serie di «Guernica, opere d’arte contro la guerra» nelle parole della professoressa Claudia Mazzucato, i disegni strazianti che mostra Cristina Castelli, vicedirettrice Bice e coordinatrice dell’Unità di Ricerca sulla Psicologia della Resilienza dell’Ateneo. Sono creazioni di bambini da tutto il mondo, da tutte le guerre. I disegni parlano al posto loro in una lingua sola. Sono racconti di orrori e morte, interrogativi senza risposta sul senso di ciò che vivono, espressioni dei loro desideri, rappresentazioni di paure e traumi, ma anche di incrollabile speranza. Si vedono droni e bombe, case abbandonate e senza finestre, corpi straziati tratteggiati con colori scuri. «Ci mostrano cos’è la guerra per i bambini: morti, feriti, ambulanze, fuga, campi profughi» – dice Castelli mentre fa scorrere queste testimonianze grafiche. «I laboratori grafico-pittorici sono una sfida e una speranza». Ai bambini italiani facciamo «capire cos’è la guerra: bisogna mantenerne la memoria per evitarla ed educare alla pace». Il valore di questo linguaggio senza parole, universale, emerge anche dal «silent book sulla Tartaruga Uga che insegna la resilienza e l’importanza delle relazioni positive, del contributo di tutti per raggiungerla».  

«Le lacrime hanno lo stesso colore», anche quelle di israeliani e palestinesi. È lo stesso dolore a unire Robi Damelin e Layla al-Sheikh, rappresentanti del Parents Circle. Sono entrambe madri che hanno perso i loro figli, e non importa se uno fosse un soldato di leva israeliano e l’altro un bambino palestinese. «Prima sentivo odio e rabbia, ma poi ho capito che meritiamo una vita migliore e possiamo averla solo portando pace. Non basta un cessate il fuoco o un accordo, serve una riconciliazione. I nostri figli ci chiederanno cosa abbiamo fatto per cambiare questa situazione e noi non possiamo rispondere che non abbiamo fatto nulla» – dice collegata da Gerusalemme Layla, «quando qui cadono le bombe non sappiamo nemmeno chi le abbia lanciate. Robi mi chiama sempre da quando è iniziata la guerra, mia figlia ha capito così che non tutti gli israeliani e i palestinesi si odiano a vicenda».

Dall’Ucraina si collega Svetlana Tabaranova, del Women’s Consortium of Ukraine. «Lavoriamo al freddo, senza luce e senza elettricità», ma con i silent book, i giochi terapeutici e il supporto psicologico i bambini «imparano a vivere dentro la guerra, a conoscere le loro risorse interne ed esterne e a sperare per il futuro» – spiega Tabaranova. Continua illustrando le iniziative del Wcu: «Nel giugno del 2023, nonostante le bombe, a Kiev abbiamo aperto il nostro spazio della resilienza», una stanza con un comodo tappeto su cui i bambini possono camminare senza scarpe, un luogo sicuro in cui genitori e figli possono esprimersi, giocare, parlare con terapisti e al contempo apprendere il valore della resilienza.

«Houda ha 16 anni e dice: “Ho combattuto tre volte sul campo e ho visto tante come me morire, vorrei cancellare tutto e scegliere una divisa scolastica invece di quella delle milizie. Vera, 15 anni, ha spiegato: “Mi ha costretto mio nonno, è il capo di un centro di iniziazione. I miei amici mi dicevano che i combattenti sono pagati bene”. Aaron è stato convinto dal padre, “diceva che i gruppi armati avrebbero liberato il Paese”». Padre Elie Molumba legge le testimonianze di tanti giovani arruolati dai miliziani che da più di otto anni combattono nella Repubblica democratica del Congo. «Sono vittime anche loro, della violenza subita e di quella agita. Vengono convinti a combattere dalle persone di cui si fidano di più, dagli amici e dai familiari. Per entrare nei gruppi devono superare i riti d’iniziazione: bere pozioni con ossa frantumate e mangiare carne umana o insetti» – spiega Padre Molumba. Traumatizzati, eppure ancora capaci di sperare in un futuro migliore, uno di questi giovani dice: “Mi ha convinto il miglior amico ad unirmi ai miliziani, ma oggi vorrei fare l’insegnante perché nessun bambino combatta più”.

Un articolo di

Alice Rimoldi e Marco Castellini

Scuola di Giornalismo

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