Siamo tutti singolarmente deboli, ma siamo tutti globalmente irrinunciabili: se le crisi sono «l’occasione per apportare cambiamenti salutari» (36), faremmo bene a incominciare da qui. Debolezza e necessità ci costringono a ripensare il nostro uso del potere (24-28), oltre l’ubriacatura della modernità, a smettere di sognare che una nuova invenzione possa risolvere definitivamente la drammatica del nostro essere al mondo, assolvendoci dal compito di una cura universale. Ci espongono al bisogno impellente di un nuovo multilateralismo (37-43), senza il quale affrontare la crisi ecologica è un’illusione. Rappresentano, infine, il primo passo per dare forma a un «antropocentrismo situato» (67), che onori il nostro debito nei confronti di quel mondo brulicante di vita che, con la sua sinfonia di colori, ci ha generato e ci sostiene. L’essere umano, scriveva un grande filosofo del Novecento, è una «poesia già iniziata»: in debito del suo inizio, necessario nel suo compimento.
Papa Francesco – come nell’iconica scena del 27 marzo 2020, quando, durante la pandemia, ha attraversato la grande piazza da solo – si è già incamminato su questa stessa strada di debolezza e necessità. In Laudate Deum la parola del papa è così essenziale e priva di retorica da apparire come un puro appello. Diventa così un sacramento del principio che annuncia: esponendosi a una risposta globale, senza la quale risulterebbe del tutto vano, ha la debolezza di un domandare; e questa debolezza, che convoca tutti all’opera della cura, era assolutamente necessaria.