Martedì 4 novembre. Pomeriggio. Un sole caldo, nonostante la stagione autunnale. Davanti alla Casa di Reclusione di Opera (Milano), un centinaio tra docenti e studenti dei licei milanesi attendono di entrare. A breve parteciperanno all’evento conclusivo del corso di formazione “Le parole possono essere muri oppure finestre. La comunicazione non violenta”, organizzato dall’Università Cattolica, insieme all’Associazione Kerkís. Teatro antico in scena.
Destinatari dell’iniziativa 12 persone che, tra quelle mura, stanno scontando la propria pena.
Il saggio finale è stato un evento intenso e partecipato: oltre al pubblico esterno, una quarantina di reclusi, venuti ad ascoltare i propri compagni. Quasi due ore di dialogo, 14 storie messe in scena dai carcerati, tratte da vicende reali del loro vissuto. Il tema? La violenza non è mai un atteggiamento conveniente, c’è un modo più umano di rapportarsi con l’altro, immedesimandosi col bisogno che ha e che, talvolta, muove anche il suo atteggiamento aggressivo. Un percorso curato dalla professoressa Elisabetta Matelli, docente di Retorica dell’Ateneo, insieme a un team di lavoro multidisciplinare e appassionato: le psicologhe Mara Gorli e Benedetta Colaiacovo, la ricercatrice di Retorica Maria Teresa Galli, Lisa Zanzottera, attrice e studiosa di teatro classico, e l'attore professionista Lorenzo Volpi Lutteri.
Professoressa Matelli, com’è nata l’idea di questo corso?
«L’idea è stata quella di unire la profondità di alcuni testi della tradizione retorica classica con le moderne intuizioni dello psicologo americano Marshall Rosenberg, fondatore dell’Associazione “Comunicazione Non Violenta”. L'obiettivo è stato aiutare i detenuti (esattamente come noi stessi) a spezzare la catena interiore che porta alla violenza. Mi ha colpito una delle giovani studentesse presenti, quando ha chiesto ai carcerati “Perché avete scelto di frequentare questo corso?” e la risposta di uno di loro è stata: “Perché ci insegna qualcosa che qui dentro è fondamentale: il confronto, il dialogo. Il carcere è un luogo duro, talvolta una ‘polveriera’, perché viviamo tutti un grande stress: scoprire che c’è un modo diverso di reagire, di guardare l’altro, permette di gustarsi di più la vita, di non perderla, anche qui dentro”».
Non è certo una scelta comune proporre un corso sulla Comunicazione Non Violenta tra le mura di un carcere…
«La decisione nasce da un'esperienza di volontariato profonda e in una visione radicata nell'umanesimo classico e cristiano. Negli ultimi anni, ho avuto la possibilità di avvicinare i percorsi trattamentali, incontrando tra i reclusi persone che vivono un dolore estremo. Quando si offre loro attenzione, fiducia e occasioni di formazione, ho visto germogliare un cambiamento straordinario. Queste persone, sentendosi considerate nella loro dignità, hanno riscoperto il coraggio della libertà di uscire dal "tunnel del crimine" che li tiene prigionieri dentro di loro, ben prima che la condanna li rinchiudesse tra le mura. Sono individui che, guidati da un gesto solidale, sanno togliersi la maschera e mettersi alla ricerca di un senso costruttivo per la propria vita».
In questi mesi di lezione ha avuto modo di dialogare spesso con gli ospiti dell’Istituto penitenziario: quali sono stati i fattori più interessanti per loro a valle del percorso frequentato?
«Il fattore più sorprendente è stata l'intensità di un impegno umano vero. Gli ospiti non si sono limitati ad apprendere una teoria; hanno realizzato un profondo lavoro di autoanalisi che ha prodotto 14 storie della loro vita. Il nostro obiettivo era smascherare, tra le pieghe di questi racconti, cosa può portare una relazione umana a degenerare nelle parole e nei fatti. Spesso, reagiamo obbedendo a stereotipi e a un malcostume consolidato, incapaci di interpretare il 'bisogno fondamentale' che si nasconde dietro i comportamenti che ci feriscono. La consapevolezza che la mia 'verità' non è l'unica e che la questione è complessa è stata una scoperta cruciale per i partecipanti».
Un esempio?
«Abbiamo messo a fuoco un principio fondamentale della Comunicazione Non Violenta tutti i bisogni umani sono universali e positivi (come il riconoscimento, l'amore, la libertà, la verità, la stima, la pace). Quando un bisogno è soddisfatto, proviamo gioia; quando è insoddisfatto, sperimentiamo un dolore che può degenerare in rabbia. I conflitti, dunque, non nascono dai bisogni in sé, ma dalle strategie distruttive che scegliamo per soddisfarli».
E questo ha provocato i detenuti?
«Certo. Penso che, a valle del nostro corso, l'interesse maggiore sia stato proprio nella trasformazione del loro sguardo. Gli ospiti hanno acquisito la consapevolezza di poter affrontare situazioni che scatenano la rabbia con uno sguardo diverso. Abbiamo lavorato intensamente sulla consapevolezza del valore comunicativo che va oltre le parole: uno sguardo, un gesto, un silenzio, il tono di voce possono essere armi o ponti. Spero sia rimasto il sentimento profondo di una ‘simpatia umana’ e di una fiducia verso ciascuno di loro».
L'evento del 4 novembre è stato il momento culminante del corso, il saggio finale con il racconto delle loro storie preparate. A quanto pare, per i partecipanti, rendere pubblico il loro percorso non è stato solo un esercizio di comunicazione, ma la concretizzazione del loro bisogno di costruire
«Il traguardo non era chiudere le ore di lezione, ma trasformare la sofferenza passata in un atto generoso di comunicazione dei benefici di questa esperienza. L'atto del ‘dono’ di offrire al pubblico le loro storie – veri e propri esercizi di onestà emotiva e di riflessione sul fallimento della violenza – ha assunto per loro il significato di riscatto e di realizzazione di sé attraverso il contributo sociale».
Quali sono le sue riflessioni rispetto all’evento finale?
«Non un risultato misurabile, ma un grande alimento per la speranza. Fino all'ultimo, nelle prove, l'evento appariva frammentato e irrisoluto, minacciato dai limiti di ciascuno e dalla fragilità emotiva di esporsi davanti a più di un centinaio di persone, inclusi giovani studenti e altri detenuti. E poi, miracolosamente, è successo che l'impatto sul pubblico, specialmente sui giovani, è stato fortissimo: hanno ricevuto, senza filtri, una lezione sulla pericolosità delle strategie violente, offerta proprio da chi ne ha pagato il prezzo più alto».
«La prova finale non ha semplicemente chiuso il corso; ha aperto una porta sulla possibilità di un futuro in cui la comunicazione diventa lo strumento privilegiato per la riparazione e la trasformazione umana. Come ha ricordato ai detenuti una delle giovani studentesse presenti: “Vi ringrazio perché, ascoltandovi oggi, esco con più speranza, anche di poter cambiare io. Spesso crollo davanti alle fatiche quotidiane, ma guardando il vostro percorso capisco che possono esserci problemi anche molto più grandi, ma soprattutto la possibilità di starci di fronte e ripartire”».