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Religione e guerra, il sacro e il fascino per la violenza

29 novembre 2024

Religione e guerra, il sacro e il fascino per la violenza

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Se tutte le religioni parlano della pace, perché allora si fanno le guerre invocando il nome di Dio? Il legame tra il sacro e la violenza è solo il frutto di un’aberrazione, o la spia di un malessere più profondo, intimo, che ha a che vedere con la natura dell’uomo?

Su questi interrogativi e paradossi hanno ragionato, lunedì 26 novembre, all'Università Cattolica del Sacro Cuore, a Milano, studiosi e studiose di diverse discipline.

L’occasione è stata il XIV seminario internazionale organizzato dall’Archivio “Julien Ries”, con la collaborazione del Centro di Ateneo per la Dottrina sociale della Chiesa.    

Come aveva anticipato Silvano Petrosino, professore ordinario di filosofia teoretica all’Università Cattolica e direttore dell’Archivio “Julien Ries”, la riflessione non ha fatto sconti a nessuno.

Pur senza farsi appiattire sull’attualità, il dibattito ha offerto un contributo per guardare in modo più consapevole a quello che succede oggi, in un mondo che «è attraversato da almeno 30 conflitti, due dei quali, i più vicini a noi, quello tra Ucraina e Russia, e quello tra Israele e Hamas, vedono contrapposti confessioni o appartenenze religiose diverse», ha ricordato ad apertura dei lavori l’assistente ecclesiastico generale dell’Ateneo, mons. Claudio Giuliodori.    

Come nello studio di uno psicoanalista, tutte le grandi tradizioni religiose sono state fatte accomodare, per così dire, sul lettino: non solo le tre abramitiche (ebraismo, cristianesimo, islam) ma anche l’induismo e l’antico zoroastrismo. Come capita in questi casi, l’analisi è già parte della guarigione.

Citando Carl Schmitt, Gianfranco Miglio e Massimo Cacciari, il professor Lorenzo Ornaghi, politologo e già rettore della Università Cattolica, ha messo in luce il rapporto tra politica e guerra. Un legame, che sarebbe suggerito dalla radice comune dei due termini greci, polis e polemos, da cui derivano i rispettivi concetti. Ma questa relazione - di cui la storia ha offerto innumerevoli e ricorrenti prove - è ambivalente, perché «da un lato, la politica, dividendo tra amici e nemici, nutre dentro di sé e genera la guerra; dall’altro, quest’ ultima può essere limitata e dominata solo dalla prima: la politica», ha spiegato Ornaghi.

In questo vincolo inscindibile, in tale abbraccio fortissimo, la religione finisce con l’essere stritolata.

«Nell’epoca moderna, la politica, pretendendo di essere il solo strumento di cambiamento della società, inevitabilmente cerca di asservire la religione. E quando la religione china la testa, rinunciando al fascino del sacro, finisce con il degenerare in ideologia», ha osservato infine Ornaghi.

 

Dai giovani iraniani mandati a morire, negli anni 80, contro l’esercito iracheno e trasformati in martiri dalla retorica della Guida Suprema Ruhollah Khomeyni, fino alle guerre balcaniche esplose dopo la caduta del Muro di Berlino, dal buddhismo politico che prende il potere nello Sri Lanka post coloniale fino alle tesi dell’ estrema destra  israeliana, le religioni sono state utilizzate delle élite al potere ora come «uno psicofarmaco per far esplodere la violenza», ora «come fondamento su cui costruire presunte identità etnico nazionali coese e pure», ha messo in luce Enzo Pace, professore ordinario di Sociologia e Sociologia delle religioni all’Università di Padova.            

Secondo la controversa teoria dell’egittologo e storico delle religioni Jan Assmann, il cui pensiero è stato riassunto da Elisabetta Colagrossi, ricercatrice in Storia delle religioni all’Università di Genova, i semi di questa violenza sarebbero contenuti nel linguaggio esclusivo e conflittuale del monoteismo mosaico.

Sarebbero i comandamenti “Io sono il Signore Dio tuo…non avere altri dei di fronte a me” e “Io sono il primo e l’ultimo, fuori di me non vi sono dei” a costituire un dispositivo che, in determinate circostanze storiche, può condurre all’integralismo e all’intolleranza.

Caratteristiche che oggi vengono imputate per lo più all’islam politico. Nondimeno, lo stesso concetto di jihâd, tradotto erroneamente come guerra santa, assume significati e interpretazioni diverse all’interno della tradizione islamica, ha avvertito lo studioso di mistica musulmana Pierre Lory, emerito all’École Pratique des Hautes Études di Parigi: «Nell’islam, l’aspetto militare occupa un posto speciale, ma il combattimento è simile a un rituale», simbolo dello sforzo personale che l’uomo compie «per donarsi completamente al suo creatore».

Anche nello zoroastrismo, la religione che si professava nel mondo persiano prima della conquista musulmana, il culto aveva un particolare rapporto con la violenza, come ha spiegato il filologo e iranista Antonio Panaino, professore ordinario all’Università di Bologna: allo scopo di contenere il male, Dio lo incorpora nella creazione, per cui nella dimensione storica la lotta tra la luce e le tenebre è necessaria.

Insomma, ogni interpretazione letterale di qualsiasi testo religioso si scontra con questo nodo indissolubile 

Tuttavia, oggi proprio all’interno del Cristianesimo, una lettura adulta della Scritture, ha fatto presente il biblista Luca Moscatelli, dovrebbe portare i credenti a considerare la violenza come un dato di fatto, ma anche spingerli, sull’esempio del Gesù dei Vangeli, ad assumersi fino alle estreme conseguenze la responsabilità di non parteciparvi.

Come ha suggerito Monica Martinelli, professoressa associata di Sociologia generale alla Università Cattolica, in un’epoca di rinascente nazionalismo, sarebbe anche utile rileggere il sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel che all’inizio della Prima Guerra Mondiale prende progressivamente le distanze dalle sue prime posizioni, impregnate dell’atmosfera militarista della Germania guglielmina, per svelare il potere ambiguo della macchina da guerra.   

Un articolo di

Francesco Chiavarini

Francesco Chiavarini

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