Quale vocazione intellettuale rivendica Dante nella Commedia, quale cifra e significato religiosi attribuisce all’opera? Se la fantasia, ovvero l’immaginazione, è per lui il presupposto basilare di ogni creazione poetica, d’altra parte lungo il poema afferma più volte che “ingegno” e “virtù” sono doti sue proprie, donategli da Dio per penetrare nei misteri dell’oltretomba e comunicarli al mondo in forma poetica. Dante non è dunque un poeta che sa qualcosa di teologia, ma è poeta in quanto teologo, e teologo in quanto poeta del divino. Giovanni Scoto Eriugena, il pensatore più acuto dell’Occidente altomedievale, aveva definito la “teologia come una sorta di poetessa”. L’identificazione accennata da Scoto è messa in scena da Dante. Scrivendo di lui, Boccaccio spiega che “la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più: che la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio”(Trattatello in laude di Dante, XXII).
Dante incarna peraltro un modello di teologo sociologicamente raro, e non solo allora. Occupato dalla passione civile e dalla militanza politica, il teologo-poeta è un laico, per di più coniugato con figli. Dovette crearsi le sue letture (teologiche, filosofiche e scientifiche) fuori dai percorsi di formazione e di accreditamento usuali a quel tempo per i teologi professionisti: quasi tutti chierici, che nel lungo percorso universitario coronavano curricula di studi avviati in scuole cattedrali, in abbazie di monaci e di canonici, in conventi di frati.
Poeta-teologo indipendente, estraneo alla disciplina e alle tradizioni delle scholae, che pure conosce bene, Dante si interpreta anche e soprattutto come profeta. Non nel senso, per noi corrente, di persona che prevede il futuro (ciò che nella Commedia è previsto come futuro era in verità già avvenuto nel momento in cui lo scritto vi allude), ma in senso propriamente biblico.
L’Antico Testamento presenta i profeti come uomini chiamati da Dio a riconoscere il suo piano sulla storia e a proclamarlo coraggiosamente al popolo, che se ne è allontanato. Precisamente questa è la missione che Dante si ritiene assegnata nei tempi nuovi. E come la parola dei profeti antichi era stata – per dirlo con parole non bibliche – fondamentalmente politica e civile, così Dante si pone espressamente come nuovo Geremia nel denunciare la corruzione diffusa in ambito politico ed ecclesiastico, nel proclamare che l’ingordigia delle gerarchie impedisce l’instaurazione della giustizia, nel battersi per il ritorno del papato a Roma, nel ricordare all’Italia divenuta “bordello” il ruolo divinamente assegnatole. Temi e prospettive destinati a improntare la cultura civile e religiosa del nostro Paese, da Petrarca e Cola di Rienzo fino al Risorgimento e oltre.
Nei canti conclusivi del Purgatorio Dante propone una grandiosa serie di visioni rimodellate a partire dall’Apocalisse. Il profeta si fa allora visionario, rivendicando la propria prossimità al veggente per eccellenza (“Giovanni è meco”). Siamo certamente nel quadro di una costruzione letteraria, per cui non si può sapere se Dante in persona abbia “davvero” ricevuto le visioni che descrive con tanta precisione, nell’alternarsi di sonno e di veglia. Comunque la si pensi, nulla cambia per la sua Berufung di apocalittico. È normale infatti che l’apocalittico riprenda e rifonda materiali apocalittici preesistenti. Così è per l’Apocalisse di Giovanni, che si appropria di modelli e figure desunti da visioni di Ezechiele e di Daniele, così è per l’Apocalisse di Dante, che liberamente rimodella le visioni di Giovanni, sostituendo al trono di Dio di Apocalisse 4 il carro in movimento della Chiesa destinato a essere legato da Cristo all’albero dell’Eden, rifiorito come Croce.
Su questi sfondi si comprende meglio come Dante possa spingersi a definire la Commedia “ ’l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2). Nella propria autoconsiderazione eccezionalmente elevata (“presunse di sé, né gli parve meno valere, secondo che i suoi contemporanei rapportano, che el valesse”, Boccaccio, Trattatello, XXV), l’”altissimo poeta” non esita ad attribuire alla propria opera un sigillo divino. Il suo testo però è “sacro” non perché lui presuntuosamente lo affermi, ma in quanto pretende di offrire un insegnamento vero sugli assetti ultraterreni, più autorevole e completo rispetto a quello di ogni Scrittura, di tutte le apocalissi e visioni precedenti.
Di fatto la sua rappresentazione dell’aldilà costituirà per secoli un riferimento insostituibile per l’escatologia cristiana e per la pastorale ecclesiastica. Geografia tassonomica dei tre regni, il cui ordinamento rigorosamente gerarchizzato è animato e ravvivato dalla potenza della sua fantasia. La destinazione dei singoli peraltro non sempre corrisponde alle misure umane, poiché tutto dipende infine dalla misericordia divina. Così può avvenire che papi del tempo si incontrino nell’Inferno, mentre il suicida Catone e lo scomunicato Manfredi stanno nel regno di mezzo, della speranza e del progresso verso l’Alto.